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I carabinieri sul luogo dell'omicidio

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BIANCO (REGGIO CALABRIA) – «Io l’ho ucciso, perché il lettino era il mio». Ha confessato subito, F.S. 22 enne di Bianco con problemi psichiatrici. Ha confessato con semplicità e spontaneità, l’omicidio di Gesualdo Chinè (LEGGI), il 70 enne ritrovato, mercoledì mattina, in una pozza di sangue all’interno di un appartamento disabitato nelle casette popolari “alluvionate” di Bianco.

I carabinieri del nucleo operativo della locale compagnia e del nucleo investigativo del Gruppo di Locri stavano facendo i rilievi fotografici in casa del 22 enne, poi avrebbero iniziato le perquisizioni anche nelle abitazioni dei vicini ma non appena, la, sul posto, hanno chiesto a quel ragazzo in tuta, chi avesse ucciso Gesualdo, il 22 enne ha subito raccontato.

«L’ho preso dalla mano», pare abbia detto, spiegando così di aver condotto il 70 enne fuori casa e averlo portato nell’abitazione difronte, quella disabitata. E la, lo avrebbe ucciso con dei coltelli da cucina. Il corpo di Gesualdo presentava delle ferite ai polsi e al collo. Bravi sono stati i carabinieri del colonnello Massimo Pesa comandante del gruppo di Locri e del capitano Lorenzo Pallotta della compagnia di Bianco, coordinati dal sostituto procuratore Marzia Currao e dal procuratore capo Luigi D’Alessio della Procura di Locri, ad esser andati oltre quel che appariva come un suicidio e, in poche ore, arrivar individuato l’autore del delitto.

Con l’accusa di omicidio colposo, il 22 enne sarebbe stato posto in stato di fermo già nel pomeriggio di giovedì. «È morto Giuseppe» (come veniva chiamato Gesualdo) diceva il 22enne con tono dispiaciuto a chi, giovedì mattina, gli chiedeva del perché tutti quei carabinieri nel quartiere. Sì, perché il 22 enne affetto da evidenti problemi psichiatrici, giovedì mattina è stato tutto il tempo là, sul luogo dell’omicidio, vicino casa sua, a pochi metri dal cadavere del povero Gesualdo, ad osservare gli investigatori mentre cercavano di svelare il giallo di quel che appariva un suicidio.

Non un segno di nervosismo da parte del ragazzo ma un dispiacere per la morte di quel vicino di casa con dei gravi problemi di salute che da alcuni giorni lui, la madre e il marito della stessa, ospitavano a casa loro per tutelarlo da un possibile contatto da Covid-19. E, proprio il coronavirus e questa ospitalità pare abbiano scatenato il raptus omicida, sembrerebbe infatti che il giovane ragazzo abbia spiegato agli investigatori che voleva solo ritornare a dormire nel suo lettino occupato, invece, in quei giorni da Gesualdo.

La storia dell’omicidio di Gesualdo Chine inizia proprio così, a causa della positività al Covid-19 della convivente della vittima e si è sviluppato in un gruppo di case popolari costruite dopo l’alluvione degli anni 50. In un ambiente dove le famiglie coinvolte vivono uno stato di degrado, grande umiltà e in modo onesto. All’indomani del delitto nel quartiere scenario dell’omicidio la vita va avanti.

La donna positiva al Covid-19 che viveva con il 70 enne è al balcone, prende il sole. Non sembra piangere. Difronte a lei c’è la madre del 22 enne, una donna distrutta. Piange. Si dispera cercando di capire come sia stato possibile. Piange per la sorte che adesso toccherà al figlio ma anche per quella toccata a Gesualdo, quel vicino di casa con gravi patologie che loro con affetto avevano ospitato nella loro piccola casa per proteggerlo dal Covid-19 e che suo figlio, invece, prendendolo per mano l’ha condotto alla morte, probabilmente senza capire quel che stava facendo.

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