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Roma, 30 gen. (askanews) – “Non è mai facile commentare una notizia scientifica che non sia stata pubblicata su una rivista di settore con tutte le informazioni e i dettagli del caso. L’annuncio dell’impianto cerebrale su di un essere umano è interessante, ma l’entusiasmo che ha suscitato è per ora poco motivato”. È il primo commento di Paolo Maria Rossini, Direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’IRCCS San Raffaele di Roma in merito alla notizia dell’avvenuto impianto del primo chip wireless in un cervello umano realizzato dall’azienda Neuralink di Elon Musk.
“Intanto perché già numerosi tentativi precedenti sono stati fatti con un approccio simile da un punto di vista teorico (anche se, ovviamente, le tecnologie diventano sempre più avanzate in termini di miniaturizzazione del device e di autonomia delle batterie) con impianti di microelettrodi su piastrine inserite chirurgicamente sulle aree motorie, visive e acustiche in varia tipologia di malati e poi perché per ora sappiamo solo che il paziente si sta riprendendo bene dall’intervento e che i contatti tra microelettrodi e neuroni sono funzionanti” commenta il neurologo.
Le prossime giornate e settimane saranno determinanti per comprendere se e quanto questo tipo di approccio potrà dare le risposte paventate. “Parliamo di pazienti completamente paralizzati per i quali un device di questo tipo può rappresentare un ‘ponte’ verso il mondo circostante per accendere/spegnere un apparecchio, per comunicare, per spostarsi con una sedia a rotelle etc.”, puntualizza Rossini, “si dovrà dunque verificare quante volte il comando inviato dal paziente viene interpretato in modo corretto dall’apparecchio e viene quindi eseguito con efficacia e quanti errori e di quale portata (anche in termini di rischio) esso compie. Si dovrà verificare la durata della bontà del contatto nel tempo perché attorno alla punta degli elettrodi si crea una reazione fibrosa che ne diminuisce l’efficacia. Valutare poi il rischio di interferenze con le onde elettromagnetiche emesse da comuni apparecchiature e che riempiono oggi l’ambiente di una casa normale. Si dovrà verificare se la presenza di microelettrodi inseriti in corteccia induca una irritazione dei neuroni penetrati dagli elettrodi con relativo aumento del rischio di epilessia.
Pensare quindi già oggi di utilizzare questo tipo di approccio in casistiche estese e in patologie di grandi numeri come i pazienti colpiti da stroke, da parkinson e addirittura da malattie psichiatriche è non solo molto prematuro, ma fuorviante perché induce speranze del tutto immotivate in malati e famiglie già troppo provati dalle loro condizioni. È una speranza che per ora si focalizza in una nicchia di soggetti totalmente privati della capacità di movimenti (SLA in fasi molto avanzate, lesioni del midollo cervicale alto, polineuropatie acute) in cui un intervento di tipo invasivo con apertura della teca cranica è giustificato anche sul piano etico. Rimane poi il problema di fondo che sarà molto, molto complicato utilizzare i segnali derivati da un cervello malato per fargli poi compiere delle azioni e prendere delle decisioni come se fosse un cervello sano, oltre che un mistero – per adesso – vedere se e come le informazioni derivanti da pochi punti del cervello umano possano riuscire a produrre ordini complessi che normalmente coinvolgono in modo parallelo o seriato tante aree cerebrali diverse e non solo una. Un salto teorico sulla cui possibilità ci sono ancora pochissime prove”.
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