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Roma, 22 set. (askanews) – E’ stato il primo – e finora unico – presidente della Repubblica ex comunista, il primo ad essere rieletto per un secondo mandato, il più anziano al momento dell’elezione al Colle, il primo dirigente comunista in viaggio ufficiale negli Usa, l’uomo del Pci che Henry Kissinger ha definito ‘il mio comunista preferito’, il primo comunista a guidare il ministero dell’Interno: è una carriera politica di primati quella di Giorgio Napolitano, ‘Re Giorgio’ come, durante gli anni al Quirinale, lo chiamavano in molti con malizia per alludere al suo decisionismo. Un uomo garbato e gentile nei modi, quasi aristocratico, ma fermo e determinato al momento di gestire i passaggi politici più complicati, dall’invasione russa in Ungheria nel 1956 alle dimissioni di Silvio Berlusconi e alla nascita del governo Monti con l’Italia in piena bufera finanziaria. Fino ad arrivare alla rielezione al Colle del 2013, quando un Parlamento paralizzato gli chiese quasi supplicandolo di rimanere, consacrandolo in una sorta di ossimoro, appunto un re della repubblica.
Un dirigente politico e uomo delle istituzioni che ha attraversato quasi un secolo di storia, sempre molto attento alla ‘ragion di Stato’ e ligio a quella disciplina di partito imparata nel Pci. Convinto sostenitore di un approccio riformista, pragmatico, che spesso, soprattutto nell’ultima fase della sua vita, lo ha portato ad essere considerato quasi un corpo estraneo dall’ala più radicale della sinistra.
Figlio di un avvocato liberale, cresciuto nei quartieri Spagnoli di Napoli, Napolitano frequentò prima il liceo classico Umberto I e poi la facoltà di giurisprudenza all’Università Federico II dove si laureò con una tesi di economia politica su ‘Il mancato sviluppo industriale del Mezzogiorno dopo l’unità e la legge speciale per Napoli del 1904’. Proprio all’Università conobbe Clio Maria Bittoni, la donna che sposerà nel 1959 e con la quale ha avuto i figli Giovanni e Giulio.
L’iscrizione al Pci è del 1945, ma iniziò l’attività politica nei ‘Giovani universitari fascisti’, come accadde a molti adolescenti di quel periodo. Militanza che gli verrà poi più volte rinfacciata a sinistra e che lui, in un’intervista a Edmondo Berselli, spiegò così: ‘L’organizzazione degli universitari fascisti era in effetti un vero e proprio vivaio di energie intellettuali antifasciste mascherato e fino a un certo punto tollerato’.
Sono anche gli anni in cui Napolitano si appassiona al teatro, conosce personaggi come i registi Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, il giornalista Antonio Ghirelli che, raccontò in seguito, ‘mi convinse della dolorosa necessità che l’Italia per salvarsi doveva perdere la guerra’.
Nel Pci entrò nel 1945, a venti anni esatti, e crebbe politicamente seguendo le orme di Giorgio Amendola, il leader dei ‘miglioristi’, la ‘destra’ del partito. Divenne presto segretario della federazione di Napoli e Caserta, poi deputato ininterrottamente dal 1953 al 1996, saltando solo la legislatura dal 1963 al 1968. Due volte eurodeputato, presidente della Camera dei deputati dal 1992 al 1994, ministro dell’Interno dal 1996 al 1998, senatore a vita dal 2005 al 2006, quando venne eletto presidente della Repubblica per la prima volta.
L’invasione sovietica dell’Ungheria, nel 1956, fu uno dei passaggi che segnarono per sempre la sua carriera politica e che lo toccarono anche sul piano personale. Napolitano, all’epoca, si schierò con gli invasori, difendendo la linea ufficiale della dirigenza Pci e attaccando uno dei suoi mentori, Antonio Giolitti, che invece aveva criticato l’intervento, una scelta che poi rinnegò più volte con pubbliche autocritiche. ‘Fu un episodio che determinò un lungo tormento autocritico, per me, – spiegò poi in un’intervista – e il discorso per approfondire quei momenti non può essere troppo sintetico. Di fatto mi espressi, alla tribuna dell’ottavo congresso del Pci, in aperta divergenza con lui’.
Fu, ha raccontato Napolitano, ‘un errore in cui caddi in quanto mosso anche da un certo zelo conformistico e da una concezione sbagliata di una serie di problemi del socialismo e della democrazia, che fece restare, me e molti dirigenti del partito, sordi davanti alla battaglia di Budapest’. Un mea culpa ribadito con un gesto simbolico il giorno del suo insediamento al Quirinale, quando andò a trovare Giolitti: ‘Volli fargli visita subito dopo l’elezione per condividere con lui quel momento cruciale del mio percorso dentro le istituzioni, dopo che ne avevamo condivisi insieme tanti altri, dal dopoguerra in avanti’.
D’altro canto fu proprio lui, dodici anni dopo l’invasione dell’Ungheria, a scrivere il comunicato con cui la direzione del Pci condannò l’intervento russo in Cecoslovacchia, un dissenso che avrebbe di fatto avviato il progressivo allontanamento di Botteghe oscure da Mosca. La sera del 20 agosto 1968 le truppe russe entrarono nel Paese per fermare la stagione di riforme avviata da Alexander Dubcek, Napolitano raccontò quelle ore nel suo libro ‘Dal Pci al socialismo europeo’: ‘Fui svegliato nella notte da una telefonata che mi disse della notizia e quindi diedi istruzioni perché fossero convocati d’urgenza a Botteghe oscure, nelle prime ore del mattino, i membri della direzione del partito presenti a Roma. Non potei ovviamente più chiudere occhio, in preda com’ero a una vivissima agitazione, e pensai alla proposta da presentare poche ore dopo per una presa di posizione a nome dell’ufficio politico del partito. Stesi così un progetto di breve risoluzione, che sottoposi alla riunione del mattino’.
Ma il ‘ministro degli esteri del Pci’, come lo definì Bettino Craxi interrogato da Antonio Di Pietro, fu anche l’uomo che avviò il disgelo tra Botteghe oscure e gli Usa. Un primo tentativo c’era stato nel 1975, quando venne invitato a tenere delle conferenze in alcune università. Il viaggio però venne annullato perché Kissinger, allora segretario di Stato, gli negò il visto. L’operazione andò in porto nell’aprile 1978, a poche settimane dal rapimento di Aldo Moro e anche Giulio Andreotti si spese per convingere Washington a dare il via libera: ‘Mi diedi da fare anch’io con l’ambasciata statunitense a Roma – raccontò poi – perché quel visto fosse concesso. Si trattava infatti di un’occasione importantissima: Napolitano potè spiegare agli americani l’evoluzione del Pci e il senso della politica che il suo partito perseguiva in quegli anni’. Lo stesso Kissinger, peraltro, arrivò appunto a definirlo ‘il mio comunista preferito’.
Fu grande sostenitore di una linea riformista, fautore del dialogo con i socialisti, persino quando cominciarono ad emergere i primi scandali politici. Quelle questioni, per Napolitano, non potevano impedire la costruzione di un fronte comune. La battaglia di Enrico Berlinguer sulla questione morale non la condivise, all’intervista del segretario Pci a Repubblica sulla ‘diversità comunista’ replicò dopo qualche settimana sull’Unità, il 21 agosto 1981 criticando le ‘reazioni indiscriminate, atteggiamenti di pura denuncia’. Per Napolitano ‘la necessaria polemica con altri partiti, la preoccupazione per i loro comportamenti più torbidi, non può comunque oscurare la nostra visione unitaria’.
L’aspirazione all’unità delle forze progressiste rimase una costante del suo impegno politico. Anche quando nel 1989 si arrivò alla svolta della Bolognina di Achille Occhetto, Napolitano provò a spingere in quella direzione. Con la manifestazione dei ‘miglioristi’ del dicembre 1990, aperta anche a esponenti socialisti, tentò di superare le divisioni dei decenni passati, acuitesi negli anni ’80. Ma poi – spiegò in un’intervista – dovette prendere atto che ‘le forze di questa componente erano limitate e non riuscirono a influenzare in modo determinante i caratteri del nuovo partito che nasceva dal vecchio tronco del Pci’.
Del resto, a complicare la riunificazione a sinistra arrivò Tangentopoli. Napolintano venne eletto presidente della Camera nel 1992 venne eletto presidente della Camera, quando Oscar Luigi Scalfaro diventò presidente della Repubblica. Erano appunto i mesi in cui crollò la prima Repubblica, sotto i colpi delle inchieste. Il ‘Palazzo’ era sotto attacco, a febbraio 1993 si presentò a Montecitorio la Guardia di Finanza per avere accesso ai bilanci dei partiti. Napolitano disse no, appellandosi alla ‘immunità di sede’.
Bettino Craxi, interrogato da Di Pietro, attaccò proprio l’allora presidente della Camera dicendo che non era possibile credere che ‘non si fosse mai accorto del grande traffico che avveniva sotto di lui tra i vari rappresentanti e amministratori del Pc e i paesi dell’est’. Napolitano non rispose a quelle accuse, nel 2010 – in occasione del decennale della morte – scrisse da presidente della Repubblica una lettera alla famiglia del leader socialista nella quale, tra le altre cose, disse che la responsabilità di quei ‘fenomeni degenerativi’ ricadde con ‘durezza senza eguali sulla sua persona’.
Durante il governo Prodi fu ministro dell’Interno, nel 1999 venne eletto eurodeputato per la seconda volta (la prima fu nel 1989) e nel 2005 Carlo Azeglio Ciampi lo nominò senatore a vita, carica che di solito segna la conclusione di una carriera politica ma che, nel caso di Napolitano, fu solo un’altra tappa verso l’impegno più importante della sua vita.
Dopo soli otto mesi, infatti, toccò proprio a Napolitano succedere a Ciampi al Quirinale. Un mandato difficile, con una prima crisi di governo già nel 2008, quando cadde il secondo governo Prodi e si andò alle elezioni vinte con una larga maggioranza dal centrodestra, ancora guidato da Silvio Berlusconi. Nel 2010 di nuovo una forte turbolenza mette a rischio la tenuta dell’esecutivo, Gianfranco Fini rompe con Berlusconi, a dicembre si va alla conta sulla fiducia in Parlamento e il leader di Fi la spunta per tre voti, grazie all’appoggio di alcuni parlamentari arrivati dall’opposizione, i ‘responsabili’ come li chiamò il premier.
Solo pochi mesi dopo, a marzo 2011, un altro passaggio strettissimo. In Libia c’è la guerra, Francia e Gb hanno già deciso di intervenire, mentre Berlusconi – in ottimi rapporti con Gheddafi – non ne vuole sapere. L’Onu dà il via libera all’intervento armato e l’Italia deve decidere. In una drammatica riunione improvvisata al teatro dell’Opera di Roma, dove era in corso un concerto per i 150 anni dell’unità d’Italia – Napolitano, Berlusconi, Ignazio La Russa e altri membri del governo discutono della questione. Il centrodestra, in seguito, racconterà quella sera attribuendo di fatto all’allora capo dello Stato la decisione di far partecipare anche l’Italia all’intervento armato. Napolitano, in una intervista del 2017, ammise la contrarietà di Berlusconi ma aggiunse: ‘Dire che il governo cedette alle pressioni del capo dello Stato in asse con Sarkozy non corrisopnde alla realtà’. Certo, ‘in quella sede informale tutti potemmo renderci conto della riluttanza del presidente Berlusconi’ ma ‘non poteva che decidere il governo, in armonia col Parlamento’.
Ancora qualche mese e scoppia la crisi dello spread, mentre Berlusconi è travolto dallo scandalo delle ‘cene eleganti’. I tassi di interesse sui titoli pubblici italiani schizzano in alto, ad agosto la Bce scrive una lettera al governo italiano – firmata da Trichet e Draghi – per sollecitare misure urgenti, all’estero cresce la sfiducia verso la capacità di tenuta dell’Italia, Merkel e Sarkozy mettono in scena il famoso sguardo complice, con sorrisetto, quando viene chiesto loro di Berlusconi. A inizio novembre il premier si dimette e Napolitano affida l’incarico a Monti, appena nominato senatore a vita. Il leader di Fi, in seguito, parlò più volte di ‘colpo di stato’.
L’ex presidente in una lettera a Repubblica replicò alle accuse definendole ‘solo fumo’ e ricordando che l’unico motivo della crisi fu il ‘logoramento della maggioranza di governo uscita vincente dalle elezioni del 2008’.
Nell’aprile 2013 il Parlamento dovrebbe eleggere il successore di Napolitano, ma le elezioni di un mese prima non avevano prodotto una maggioranza. L’exploit del Movimento 5 stelle manda in tilt il sistema, non c’è una maggioranza e le Camere non trovano i voti per eleggere un nuovo presidente, i partiti di fatto implorano il capo dello Stato uscente che ancora pochi giorni prima aveva detto di no ad eventuali bis. Napolitano viene rieletto, il suo discorso di insediamento è uno schiaffo alle forze politiche, una strigliata che tutti – tranne M5s – applaudono come se fosse diretta a qualcun altro.
Nasce il governo Letta, sostenuto da centrodestra e centrosinistra, ma la larga coalizione si incrina in autunno, quando il Senato vota la decadenza di Berlusconi, condannato per frode fiscale, applicando la legge Severino. Fi esce dalla maggioranza, resta Angelino Alfano con una pattuglia di parlamentari che garantisce i numeri. Ma sono solo pochi mesi, Napolitano deve gestire una nuova crisi perché nel frattempo Matteo Renzi diventa segretario del Pd e diventa irresistibile la spinta per un passaggio di consegne a palazzo Chigi. A febbraio 2014 si insedia il nuovo governo, l’ultimo dell’era di Re Giorgio. Il presidente si dimette a inizio 2015 e a 90 anni, torna al suo scranno di senatore a vita.
All’inizio della nuova legislatura, nel marzo 2018, presiede ancora una volta il Senato, in attesa dell’elezione del nuovo presidente. Pochi mesi dopo il malore e l’operazione al cuore che, di fatto, hanno segnato la fine della sua lunghissima carriera politica.
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