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Milano, 7 set. (askanews) – Una svolta nella bibliografia che finora ha raccontato Mani Pulite e i processi a Bettino Craxi. Nel libro “Damnatio memoriae. Mani Pulite e i processi a Bettino Craxi” (libertatesLibri), il giornalista Fabio Florindi e l’avvocato Roger Locilento scandagliano migliaia di carte processuali e ricostruiscono l’atmosfera nella quale quelle inchieste maturarono.

Quando scattano i processi destinati a cambiare la storia d’Italia, Tonino è pubblico ministero da una decina di anni, ma la sua figura è controversa: all’interno della stessa magistratura c’è chi ritiene che utilizzi metodi “eccessivamente inquisitori”. Anche Craxi è divisivo: c’è chi lo apprezza per il suo “decisionismo”, ma c’è anche chi gli muove una guerra senza quartiere e lo ritiene il cardine del vecchio sistema da smantellare. La pressione della procura di Milano, e di molta della stampa, è enorme. Alla fine Bettino riceverà qualche decina di avvisi di garanzia e due condanne definitive. Ma il metodo di indagine del pool di Mani Pulite è nel mirino di molti: l’accusa è di usare la carcerazione preventiva per estorcere confessioni, di cui a quel punto è lecito dubitare.
Dall’analisi che i due autori fanno delle carte processuali emerge un dato inconfutabile: non c’è un documento che inchiodi Bettino, le sentenze di colpevolezza arrivano sulla base di testimonianze, rese spesso da coimputati che avevano tutto l’interesse a sminuire le loro colpe e che nella stragrande maggioranza dei casi, sfruttando una legge dell’epoca, riferiranno quelle accuse solo ai pm, impedendo alla difesa di contro-interrogarli.

Craxi era un politico del suo tempo, accettava il finanziamento illecito ai partiti come qualcosa di normale. Ha sempre ammesso di essere a conoscenza del meccanismo in generale, ma ha rigettato le accuse di corruzione o concussione su episodi specifici. Alcuni passaggi delle sentenze citate nel libro sembrano richiamare periodi bui della storia. “Si può anche dar atto a Craxi – scrive la Corte d’Appello di Milano che conferma la condanna nel processo della Metropolitana Milanese – che in questo processo non è risultato né che abbia sollecitato contributi al suo partito né che li abbia ricevuti a sue mani, ma questa circostanza – che forse potrebbe avere un qualche valore da un punto di vista per così dire estetico – nulla significa ai fini dell’accertamento della responsabilità penale”. E la Cassazione dirà che “la prova della attribuibilità di singoli fatti storici (in ipotesi costituenti reati) a un determinato soggetto può essere ricavata anche da argomentazioni logiche”.

Poco dopo che Craxi si è rifugiato a Hammamet, nel dicembre 1994, Di Pietro si dimette dalla magistratura. Dichiara di non voler fare politica, ma dopo un paio di anni entra nel governo Prodi come ministro dei Lavori pubblici e nel 1998 fonda il suo partito: l’Italia dei valori. I magistrati di Brescia, intanto, lo indagano per diverse ipotesi di reato. Finirà tutto in nulla. Nel 2000, Craxi muore a Hammamet con due condanne definitive e diversi processi ancora in corso. Qualche anno dopo la Corte europea dei diritti dell’uomo condannerà in due occasioni l’Italia: in una per non aver garantito i diritti della difesa nel caso Eni-Sai e nell’altra per non aver garantito la privacy dell’imputato nel processo sulla Metropolitana Milanese.

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