Nichi Vendola con la sua raccolta di poesie, “Patrie”
5 minuti per la letturaA Molfetta, in occasione della presentazione del volume di poesie “Patrie” (il Saggiatore) di Nichi Vendola, nell’officina culturale Spazio le ArtiI, organizzata dal movimento politico “Rinascere”, abbiamo affrontato con l’autore e già Presidente della Regione Puglia, l’intreccio della dimensione politica con quella poetica, in cui i temi linguistici, emotivi e culturali attraversano il suo sguardo, ricco di una seconda giovinezza, consapevole di un mondo che vive di orrori e di desideri di riscatto.
Da dove nasce l’urgenza di scrivere un libro di poesie?
«Ogni gesto artistico è un atto politico, può essere un atto di ribellione, di consacrazione invece del potere costituito, è un atto politico la lode al tiranno come la lode al tirannicidio. La fuga dalla storia e il ritrarsi in una torre d’avorio è un atto politico, costruire dannunzianamente un proprio guardaroba dell’eloquenza, rifuggire dalla società di massa avendone orrore è un atto politico, oppure attraversare le viscere della Storia, sentire l’abbraccio con l’umanità, viverlo nei tanti registri che sono possibili, come elaborazione artistica, attraverso il verso, la pittura, la musica, è un atto politico. Sin dall’infanzia mi son portato dietro questo incantamento per la parola, erano gli anni in cui uno scopriva le poesie d’amore di Prévert, iniziavi a orecchiare le prime poesie di Pablo Neruda. La poesia extrascolastica invece proveniva dalle inquietudini che provocava l’adolescenza, recitavo a memoria Dei sepolcri di Foscolo, poi la scoperta di Leopardi, il Leopardi de La ginestra, che contro la Natura matrigna invoca il fare catena umana, solidarietà. Poi la scoperta dei poeti che hanno raccontato quel che è accaduto, come Quasimodo, che raccontava qualcosa che ci minaccia, è la naturalizzazione della frattura del genere umano, con questo noi conviviamo, perché noi conviviamo con i cadaveri che galleggiano nel Mediterraneo».
La sua raccolta si intitola “Patrie”. Un plurale voluto per contrastare il sovranismo di questi tempi?
«Patria è una parola che si può solo declinare al plurale: è bellissimo immaginare la pluralità delle patrie, quanto mi possono arricchire quelli che hanno le loro tradizioni, i loro sapori, i loro suoni che vengono dall’Australia piuttosto che dall’Amazzonia. La parola patria può esistere solo in una condizione, lo dico in una poesia, se si fonda su un esercizio limpido della memoria, lo dico nell’ultimo verso: “la mia patria è una pietra / d’inciampo / un lampo / che rompe il confine”. Le pietre d’inciampo sono le lamine di ottone che in tutte le città d’Europa voi trovate nei centri storici, nelle aree chiamate ghetto, dove vivevano gli ebrei che venivano rastrellati e deportati nei campi di sterminio. Il fondamento della patria è nella memoria, la sua missione non è il confine, è guardare oltre il confine, per quello sento l’urgenza di scrivere».
Il ruolo dell’intellettuale sembra scomparso, l’indagine e l’elaborazione della realtà sembra inascoltata. Questa figura azzerata come potrebbe ripartire per essere protagonista di una società aperta alle sfide della contemporaneità?
«Viviamo una solitudine delle competenze: una competenza che non incrocia la politica è un errore, la competenza di un architetto che non incrocia la politica e che non viene messa in connessione con i doveri sociali, che non prevede l’organizzazione degli spazi urbani, che non aiuti l’implementazione della qualità della vita, grifferà periferie orribili, vi è stato un ritorno al mito dello specialismo che ha vissuto però una questione di solitudine perché non ha più potuto connettersi su un piano di dibattito generale. Io parlo molto con uno che detesta gli specialisti, che scrive libri bellissimi, si chiama Piero Bevilacqua, è uno storico del paesaggio, ma è anche un geografo, uno storico dell’ambiente, è uno che rompe l’idea dei compartimenti stagni, e che prova a far dialogare i saperi, anche in maniera disperata, con gli attori politici».
Passiamo alla sua terra. Foggia, Cerignola, Manfredonia e Molfetta stanno subendo episodi costanti di criminalità e di malaffare. Come si spiega questo ritorno all’illegalità?
«Fenomeni diffusi a macchia di leopardo di trasformismo sono un ritorno a un’aggressività della malavita abbastanza inquietante, basta vedere gli episodi delle bombe. La lettura degli ultimi mesi dei giornali pugliesi mi dava veramente la sensazione di un déjà vu. Un profumo, o meglio una puzza degli anni 90, gli anni in cui abbiamo faticosamente esercitato il diritto alla parola su ciò che nella scena pubblica non bisognava dire. Abbiamo reagito, costruito una reazione, penso all’autobomba di fronte al municipio di Terlizzi, all’incendio del Teatro Petruzzelli, a vicende pesanti che riguardavano la mafia come formazione di una nuova intrapresa moderna, una vera e propria holding criminale capace di influenzare la vita sociale e parzialmente quella politica. O la politica è capace di cogliere a 360 gradi i fenomeni sociali, la qualità della vita, la bellezza e la bruttezza insieme di ciò che accade nei territori oppure diventa un rumore di fondo, vista dal lato di chi vive in territori sequestrati dalla criminalità organizzata, e lo dico qui a Molfetta, in una città che conobbe un momento catartico, dopo l’operazione chiamata “Reset”, con gli oltre cento arresti».
Di recente Emiliano, a fronte del suo allargamento delle coalizioni, ha dichiarato che il suo “Non è trasformismo, è civismo”. Prende le distanze dalla sua posizione politica?
«Quello che mi preoccupa dei fenomeni diffusi di trasformismo è che possono essere un vettore, che in qualche modo rimette in comunicazione mondi che dovrebbero essere separati. Non tutto il fenomeno del civismo è un fenomeno di civismo, spesso, bisogna dirlo, è un fenomeno elettoralistico, di copertura di quello che si chiamava trasformismo. Tante volte mi accorgo che vengono improvvisate liste civiche che corrispondono a movimenti individuali di riciclo che vanno da una parte all’altra. Osservo quello che accade e anche l’indifferenza del partito di Emiliano su questo fenomeno».
Il trattamento di fine mandato è stato cancellato, ma non era così scontato l’esito di questa vicenda.
«Si è chiusa bene questa vicenda, non era stata una pagina molto bella della storia del concilio regionale. Da un lato c’era un problema di opportunità, dall’altro c’era un problema del merito, perché una legge che riguarda i debiti fuori bilancio, introducendo un emendamento che fa un nuovo debito fuori bilancio è un’insensatezza. Almeno questa vicenda è stata archiviata».
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