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La sede della Cgil a pochi metri dalla pista di Borgo Mezzanone

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Daniele Iacovelli segue da oltre 14 anni la realtà del ghetto sulla pista di Borgo Mezzanone, ha osservato la sua trasformazione, più profonda negli ultimi anni, anche come segretario della Flai Cgil di Foggia. Tra le baracche, cinque delle quali bruciate pochi giorni fa, si è sviluppata una comunità che oggi può contare su una sorta di comitato, suddiviso al proprio interno a seconda delle competenze che fanno capo a una figura centrale, chiamata “sindaco”. Quello di Iacovelli è un osservatorio diretto, visto che la Camera del Lavoro si trova a pochi metri dall’insediamento.

Che situazione c’è oggi a Borgo Mezzanone?
«E’ una condizione stratificata, un insediamento per alcuni versi autosufficiente. I servizi che di solito si trovano in una comunità, sono nati anche qui».

Quante persone ci vivono attualmente?
«Circa 1300, per la maggior parte uomini, tra i quali in molti lavorano nei campi. Altri si occupano di fornitura di servizi, come macellerie, alimentari, elettrodomestici o vendita di bombole di gas».

Come accade in molti insediamenti come questo, il ruolo delle donne è legato spesso alla prostituzione. E’ così anche a Borgo Mezzanone?
«La pista è il centro nevralgico della prostituzione africana. Ci sono molte realtà che si sono sono occupate di questo fenomeno e sono riuscite a strappare alcune donne da questa condizione, tra le 100 presenti. Alcune di loro, infatti, lavorano in campagna».

Chi si occupa delle prostitute, c’è qualcuno che le gestisce all’interno del ghetto?
«Lo fanno alcune donne che se ne occupano in determinati locali».

Si tratta più in generale, ancora di baracche improvvisate in cui vive la comunità
«Negli ultimi anni stanno lasciando spazio a strutture in muratura. C’è una sorta di autointegrazione, attraverso una organizzazione interna, coordinata da una persona chiamata sindaco che conta anche su una specie di commissione edilizia che ad esempio quando si incendia qualche baracca si reca sul posto e con metro e matita si occupa della futura struttura. Hanno in sostanza una organizzazione interna ben precisa, un po’ come la camorra».

E ovviamente non si pestano i piedi
«A volte può capitare e questo provoca qualche problema che poi finisce nelle cronache»

Questa autonomia contribuisce a rafforzare la reazione contro i caporali?
«Non direi. Uno dei motivi per i quali i ghetti esistono è rappresentato proprio da loro che procurano lavoro, offrono un servizio che lo Stato non dà: sono, insomma, l’incontro fra domanda e offerta».

Il caporalato, dunque, prende il posto dei percorsi legali?
«Assolutamente no. Il caporale si sostituisce in modo del tutto illegale. La sua è una posizione prevalente in termini di capacità di sfruttamento. Ciò che egli offre in modo violento e illegittimo, dovrebbe farlo lo Stato in modo legale e gratuito».

I sindacati possono essere parti intermedie in questa fase? Possono riuscire a far entrare la legalità?
«Si potrebbe fare se i Centri per l’impiego fossero messi nelle condizioni di fare il proprio dovere. Invece nessuna azienda si rivolge a questi uffici e nemmeno i lavoratori».

Che rapporto avete con le imprese agricole che spesso scelgono come referente il caporale?
«A volte sono gli stessi lavoratori a contattarci per denunciare condizioni di sfruttamento o di minacce. Altre volte è proprio il sindacato di strada a farlo direttamente, mentre loro lavorano, passando per contatti rapidi. Lasciamo loro dei volantini, direttamente in campagna grazie a contatti che riusciamo ad avere; spieghiamo cosa fa il sindacato e ci offriamo per qualsiasi contatto, lontano dal datore di lavoro».

Nel tempo ha notato che è cambiata la risposta dei lavoratori
«Sì, è migliorata molto. Sono molto meno diffidenti quando parliamo del sindacato, ci conoscono, mentre fino a un po’ di tempo fa non avevano alcuna idea di cosa fosse il diritto salariale o la busta paga».

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