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«Serve un Patto per il lavoro affinché le risorse del Pnrr siano legate alla creazione buona occupazione con una visione strategica per il territorio». La Cgil prova a scuotere politica e imprese lanciando la proposta di una cabina di regia sul Piano di ripresa e resilienza dopo aver tracciato un quadro tutt’altro che lusinghiero sulla situazione sociale e lavorativa del territorio. Soprattutto per i più giovani.

Secondo le proiezioni Istat riportate nel rapporto “La Puglia tra precarietà, povertà lavorativa e rischio desertificazione demografica” entro il 2030 la regione perderà 102 mila 272 persone nella fascia di età tra i 15 e i 34 anni, e un totale della popolazione di 211 mila 883 nello stesso periodo calcolato a partire dal 2020.

Previsioni future prossime che traggono certezze dalla situazione attuale. I ragazzi sotto i 29 anni che lavorano sono solo 149 mila 817, i disoccupati 61mila 628. Un quarto lavora nel commercio, un altro 20 per cento tra agricoltura e servizi. Settori che si contraddistinguono per precarietà lavorativa, part time, stagionalità e basse paghe. Solo il 13,8 per cento degli occupati ha un laurea, il 64,4 per cento il diploma di scuola superiore.

Significativo il tasso dei cosiddetti Neet, coloro che in età attiva non studiano e hanno smesso di cercare lavoro. Tra i 15 e i 29 anni sono il 28,6 per cento. Di questi 29,5 uomini e 27.6 donne. Bari e provincia perderanno 50 mila 478 persone, 30 mila 472 sotto i 34 anni, 9 mila tra i 15 e i 19. Tendenza dovuta per lo più all’emigrazione (in parte anche al calo delle nascite) aumentata negli ultimi 20 anni, soprattutto per quanto riguarda i trasferimenti all’estero. In questo arco temporale, infatti, sono state 89 mila 882 le persone che hanno lasciato definitivamente la Puglia per una destinazione fuori dai confini nazionali. Si è passati da poco più di 2 mila nel 2010 agli oltre 8 mila del 2019 (nel 2020 sono state 7 mila 043).

Ancora più pesante il dato di chi si è trasferito in altre regioni italiane, per lo più al Nord: 471 mila 020. Dato, quest’ultimo, rimasto per lo più costante dal 2002 al 2020, con picchi come i 27 mila 915 del 2019. Partono per lo più i giovani. E lo fanno da tutte le province. A pagarne di più le spese sono i laureati che hanno difficoltà a trovare una collocazione in base alla proprie qualifiche. Lo confermano anche i numeri forniti da AlmaLaurea: «Su dieci dipendenti solo due sono laureati». A tre anni dal titolo, gli studenti del Politecnico di Bari, preso come campione di esempio, trovano lavoro nella misura dell’87 per cento, ma il 41 in altre regioni o all’estero.

Di qui la proiezione demografica che racconta il rischio di una desertificazione nelle fasce di età dei più giovani, stretti nella morsa del precariato e dei salari bassi. «Gli individui poveri per classi d’età – sottolinea ancora il sindacato – vedono il 30,9 per cento concentrarsi nella fascia 15-34 anni, cui si somma un altro 14 per cento dei minori di 14 anni».

Su un campione di 599 laureati al Politecnico di Bari, si coglie come anche nell’alta formazione ci siano differenze di genere. Gli occupati tra gli uomini sono 95,9 per cento, tra le donne invece 88,1. I laureati del Politecnico trovano lavoro mediamente in meno di sei mesi, 5,5 per l’esattezza, ma solo il 75 per cento di elevata specializzazione e il 51,7 per cento a tempo indeterminato.

Il 10,1 ha contratti di formazione. Ad assorbirli sono per lo più il settore dei servizi al 54,9 per cento e dell’industria al 44,3, ma la quasi totalità dal privato, col 92,4 per cento. Solo il 7 per cento invece trova occupazione nel pubblico. Al Sud rimane il 59,5 per cento, mentre oltre il 27 per cento finisce al Nord e il 4,8 all’estero.

Le retribuzioni medie non sono particolarmente elevate, si attestano attorno a 1.469 euro. E anche in questo salta all’occhio la differenza di genere, gli uomini guadagnano mediamente 1.552 e le donne 1.342 mensili.

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