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La lectio di Pino Aprile a Scampia

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7 minuti per la lettura

di PINO APRILE*

SI può. Certo che si può, che possiamo farcela, dobbiamo farcela, ma non è sempre facile ricordarsene, specie se, per passione e compito che ti sei scelto (o la vita ha scelto per te), giri per quel Sud dove l’occhio dell’informazione nazionale non arriva, gli analisti non scavano e le tabelle non riportano (e io stesso, quando ci sarei andato a Girifalco, Pignola, Casapesenna…?).

Quei posti che entrano solo come somma in una media statistica, anonimi, mai protagonisti, se non, a volte, in punto di morte: il terremoto, la frana che cancella il paese che non sapevi esistere, la colata di fango che fa scoprire Giampilieri quando non c’è più. È lì che capisci cos’è il crimine dell’Italia contro il Sud: quando ti senti in colpa dinanzi alla forza dei pochi, alla loro resistenza in loco, all’orgoglio del qualcosa fatto in più, in meglio (dal marciapiede alla chiesa restaurata, alla panchina sul corso) e di cui nessuno saprà, ma assorbe vita e impegno di ignoti costruttori di bene comune, per risultati che non vedrai nei rapporti trimestrali dell’Agenzia X o in quelli biennali della Fondazione Y. Posti così ci sono anche nelle grandi città, ma come fossero distanti cento chilometri o cent’anni: li guardano e non li vedono, entrano nel campo visivo, non in quello dell’interesse. E magari è lì che si costruisce il domani.

Un posto così è a Scampia, e spesso gli stessi napoletani devono scoprirlo; è l’Officina delle culture Gelsomina Verde: me ne accorgo ogni volta che ci porto qualcuno che non lo sapeva e vedo sul suo volto lo stupore e (posso dirlo?) un filo di ammirazione e vergogna. Sarà così (vedere e non sapere), forse perché in alcuni posti c’è troppo poco e a Napoli c’è troppo. L’edificio oggi chiamato Gelsomina Verde era il giusto tempio di Scampia-Gomorra: una scuola professionale che la guerra di camorra svuotò, perché i genitori preferivano non mandarvi i figli, per sottrarli ai pericoli.

L’edificio abbandonato divenne prima deposito di armi dei criminali, poi centrale di spaccio e consumo di droga alla luce del sole. Quando Ciro Corona (rampollo degenere di una onorata stirpe di camorristi, sfuggito alla tradizione familiare grazie ai suoi “deviati” genitori e a una scandalosa laurea in filosofia, unico titolo di studio accademico nella storia dei Corona) mi mostrò il rudere che voleva trasformare in paradiso, lo aveva già liberato di 12 tir di monnezza e una quarantina di bidoni di siringhe. Ed era ancora il lurido salotto di Belzebù. «Ti voglio bene, ma sei pazzo», gli dissi. Da ateo: sia ringraziato dio di averci dato i pazzi.

Quell’antro infernale è oggi l’Officina delle culture: fatevi un regalo, andateci, portateci i bambini, le porte sono sempre aperte, entrano pure i cani, non c’è pericolo, camorra e burocrazia rendono a Ciro la vita difficile, ma la gente di Scampia difende quel miracolo in cui i bambini vanno a fare doposcuola (alcuni non vanno a scuola, ma “al doposcuola di Ciro”, sì), o a studiare e comporre musica, ad apprendere artigianato d’arte, le donne a fare pilates in palestra, mentre i loro figli giocano a pallone nel campetto… Entri e nella biblioteca c’è un gruppo di persone, quasi tutte giovanissime, che ascoltano una lezione-dialogo sui libri. Colpisce la passione che senti in chi ne parla, la ricerca di formulazioni dei concetti che li rendano più comprensibili, ma non banali. Vorresti restare, ma hai un appuntamento nella sala-musica, per ascoltare in anteprima la registrazione degli ‘O Rom, che preparano un nuovo cd, il primo in napoletano e non in lingua rom: Napulitan Gipsy Power. E poi al fondo rustico Amato Lamberti sequestrato alla camorra, di cui Ciro e altri santi pazzi chiesero la gestione. Gli dicevano che quello sarebbe stato il suo passo falso, perché «non si può. Lo sanno tutti». Infatti l’allora sindaco Rosa Russo Jervolino manco rispondeva, mentre la camorra continuava a usare quei 14 fertilissimi ettari. Visto? Non si poteva.

Ciro riprovò con Luigi de Magistris e dimostrò che si poteva: da lì vengono le eccellenze agricole vendute con “La cassa per il mezzogiorno” e “Il bottino del Sud”, dalle marmellate alla falanghina “Selva Lacandona”, la birra artigianale “Cella zero”, e pure maglietta, libro, cd degli O Rom. La camorra ha mostrato di non gradire (dall’incendio di una baracca ai proiettili fatti arrivare a Ciro); ma i veri problemi i santi pazzi di Scampia li hanno con enti e burocrazia: dagli 85mila euro, una donazione, per restaurare l’altra ala dell’Officina delle culture, fermi da tre anni, perché qualche “funzionario competente” non ha ancora messo la firma (l’ultima), all’assegnazione del fondo rustico che, così direbbe una norma, andrebbe rifatta ogni tre anni. «Un’azienda agricola!?», commenta disorientato Ciro e increduli noi. «Io devo mettere a dimora alcune migliaia di piante che fra tre anni ancora non daranno frutto. Che faccio?». Già, che fa? Boh, l’unica cosa certa, conoscendolo, è che qualcosa farà («Crediamo ai miracoli».

A lui e Jessica, gli specialisti, dopo anni di pellegrinaggi per ospedali e numeri uno, avevano spiegato che non potevano avere figli. E la prima cosa che ti indica Jessica, appena ti vede, è la pancia: come se potesse nasconderla: Francesco nascerà a luglio. Non si può? Per una volta che, forse, se ne erano convinti…). L’antimafia di Ciro, degli scampioti che hanno cambiato la faccia di Gomorra (quella la trovate ormai solo in tv) è proprio terra-terra, nel senso che nasce e si sviluppa sul territorio, portando in classe i figli “evasori scolastici” dei boss (così cominciò Ciro a far danni all’ordine camorristico), aprendo lo Sportello anticamorra, per raccogliere le denunce di chi non si sentiva di presentarle e portandole ai magistrati come proprie, trovando un lavoro allo spacciatore, che continua a maneggiare polvere bianca, ma è calce; assumendo ex detenuti o dando lavoro esterno a carcerati in permesso (sono loro che fanno la birra)… tutte cose al minimo, ché le forze e le possibilità quelle sono, ma fanno campare senza delinquere: pochi soldi, tanta dignità.

All’incontro con gli studenti calabresi di Pedagogia della R-esistenza, gemellata con il Gelsomina Verde, partecipano ospiti che vale la pena citare: Francesco Iannaccone ha fondato e guida Neperia Group, con filiali in Sicilia e a Roma: si occupa della nascita di startup, gestione di grandi sistemi informatici per le aziende e intende aprire uffici in ogni università del Sud, per fermare la fuga dei migliori ingegneri informatici.

Ha cominciato con Catania (c’ero anch’io): «Pensa, sono napoletano, anche se vivo a Roma, e questo non lo conoscevo», dice dell’Officina; Antonio Genzano è un alto ufficiale che ha lavorato a Washington (e lì si è sposato: la moglie è dirigente della banca mondiale) e ora spende le sue doti per creare sviluppo al Sud: «Pensa, sono campano e di questo non sapevo…»; Massimo Vaccaro era manager per gli acquisti in grandi catene della distribuzione alimentare, poi ha deciso di dedicarsi solo a eccellenze alimentari del Sud, ha fatto nascere Bussa ca tras’, fra Puglia, Campania, Calabria e la sua Basilicata e si incuriosisce della Cassa per il mezzogiorno di Scampia. A uno a uno, si avvicinano a Ciro, li vedi parlare, progettare. Il dottor Ulderico Catania era qui perché, dopo l’incontro con gli studenti (poi scesi a occupare militarmente pasticcerie e negozi di via Toledo), si è parlato di come si può ottenere, da un Paese così squilibrato per diritti, infrastrutture e opportunità, una politica più equa per il Sud.

«Non conoscevo l’Officina», dice, «eppure vivo a Napoli. Ce l’avete qui un defibrillatore?», chiede a Ciro. No. «Allora, la nostra associazione…». E mi sa che arriva pure il defibrillatore. L’antimafia è opporsi al male e ne contiamo le vittime e i risultati di crescita civile, grazie a quei martiri. Ed è costruire il bene, ognuno come può, dove può, quanto può. La somma del poco di tutti può essere sorprendente. Regalatevi una gita a Scampia, per crederci. Se restate con l’occhio secco, preoccupatevi: non avete cuore.

*scrittore e giornalista

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