Roberto Olla
6 minuti per la letturaAl via il secondo giorno della Biennale di Amelia, “Recupero della Memoria Storica”, con interessanti appuntamenti articolati in due incontri, uno a Palazzo Boccarini, con il coordinamento del Generale Sq. (AM) Giorgio Baldacci ed uno alla Sala Conti Paladini, con il coordinamento del giornalista Marco Petrelli. Una rassegna che intende recuperare memorie storiche di cui si teme la scomparsa al fine di coglierne l’importante valore educativo e socioculturale.
Ieri pomeriggio è stato presentato il libro “La ragazza che sognava il cioccolato” del giornalista Roberto Olla (conduttore e autore di numerosi programmi televisivi, scrittore e regista). Una storia intensa che narra della deportazione di Ida Marcheria e degli ebrei di Trieste. Una preziosa testimonianza consegnata in amicizia all’autore al fine di lasciare nella copiosa letteratura scientifica sulla Shoah un’impronta dei tragici avvenimenti che hanno cambiato per sempre la vita e il destino di Ida e della sua famiglia deportata. Un racconto emozionante che apre le porte alla rinascita dopo Auschwitz. Per saperne di più, abbiamo intervistato Roberto Olla.
Roberto, com’è nata l’idea del libro?
«Negli anni, io e Ida siamo diventati amici. È ritornata ad Auschwitz con me. La sua storia mi è stata raccontata in un arco temporale di circa dieci anni. Un pezzo per volta. Per molto tempo non ha parlato. Poi, ha iniziato a portare la sua testimonianza nelle scuole. Mi ha chiesto di scrivere la sua storia affinché restasse una traccia e non andasse persa. Così è nato il libro».
Sulla sua storia avete realizzato anche un documentario di grande successo.
«Sì, ha conquistato il premio speciale Oscar tv per i 50 anni di storia della televisione italiana. Ha avuto altissimi indici di ascolto».
Potremmo dire che il titolo di questo libro anticipa una rinascita di Ida Marcheria perché, dopo essere sopravvissuta a due anni di Auschwitz, ha aperto il suo laboratorio di cioccolato. Dico bene?
«Esatto. Diciamo che Auschwitz rappresenta la morte mentre il cioccolato è la vita. Sono due mondi contrapposti. Come sai anche dal libro, la notte, Ida sognava di mangiare cioccolata. Ad Auschwitz non si mangiava quasi nulla: una semplice brodaglia che, raramente, conteneva qualche pezzo di carota, cavolo o patata. La sorella di Ida, Stellina, sognava un catino di pasta asciutta. Ida mi ha sempre detto che il grande dono che Dio le aveva fatto dopo la liberazione era stato quello di trovare un laboratorio di cioccolata. Inizialmente, lei ha trasformato il piccolo laboratorio del marito in una specie di miniera della cioccolata. Ancora oggi, il figlio di Ida manda avanti la piccola azienda e continua a produrre questa cioccolata meravigliosa fatta che vengono a cercare da tutta Roma. Per Ida è stato un ritorno alla vita. La rinascita di Ida è legata al lavoro dei suoi sogni e alla nascita di figli e nipoti».
Il suo laboratorio di cioccolato è diventato un luogo di riferimento e di ritrovo per altri deportati sopravvissuti.
«Sì, ho conosciuto lì Shlomo Venezia, la più importante testimonianza che mai abbiamo avuto su Auschwitz. Lui lavorava nel Sonderkommando. Quindi, è stato in grado di spiegare il meccanismo industriale delle camere a gas e dei forni crematori, nonché il sistema della dispersione delle ceneri nel fiume. Lì ho conosciuto anche Piero Terracina, altro grande testimone della Shoah. A fine giornata lavorativa, verso le 18, si riunivano e iniziavano a condividere i loro ricordi. Diverse volte, sono stato seduto ad ascoltarli. Tra loro, avevano bisogno di dirsi poche cose perché, avendo vissuto un’esperienza comune, si capivano al volo. Quando intervenivo per fare qualche domanda, approfondivano alcuni passaggi e mi spiegavano certi meccanismi. È lì che ho capito il grande messaggio che ci hanno dato questi sopravvissuti, al di là degli studi storici sulla Shoah».
Qual è il valore aggiunto di queste grandi testimonianze?
«La Shoah è decisamente la pagina di storia più studiata in assoluto. Oggi, sappiamo quasi tutto. Sappiamo addirittura chi c’era dentro ogni vagone. Sappiamo quante persone potevano essere contemporaneamente uccise all’interno di una camera a gas e quanto tempo ci voleva per disfarsi dei cadaveri portandoli nei forni crematori. Conosciamo i ritmi di lavoro. Sappiamo tutto però loro hanno dato un valore aggiunto alla conoscenza della storia. Per quel che possiamo capire, visto che solo chi l’ha vissuto sulla propria pelle può capirlo veramente, ci hanno fatto capire cosa significa essere ridotti a “non persone” e non avere una propria identità. Ci hanno spiegato cosa significa non essere considerati essere umani, ma un “pezzo” che prima o poi andava eliminato dopo essere stato sfruttato sul lavoro. Il peggio del peggio del razzismo».
Cosa ti ha colpito della storia di Ida?
«Diversi elementi, soprattutto il fatto che quando è entrata nel lager a soli 15 anni ha deciso di fare, a suo modo, una sorta di resistenza interna. Aveva trovato il modo di non fare arrivare ai nazisti tutto quello che veniva rubato ai deportati. Quando trovava dei soldi, li faceva sparire distruggendoli. Essere beccati a compiere un gesto del genere significava essere uccisi sul posto. Poi, Ida mi ha raccontato com’erano realmente i nazisti. Noi abbiamo un’idea mutuata dai film di Hollywood: uomini rigorosi, rigidi, tutti d’un pezzo, nelle loro divise disegnate da Hugo Boss. Lei mi ha sempre spiegato che, oltre ad essere feroci assassini, erano delinquenti, disonesti, ladri che rubavano alla loro stessa amministrazione. I gioielli che venivano sottratti ai deportati li tenevano per sé, anziché consegnarli. Nei racconti di Ida, ci sono tanti elementi che vanno ad aggiungersi alla grande letteratura scientifica sulla Shoah».
Cosa porti nel cuore della storia di Sami Modiano e Piero Terracina?
«Purtroppo, Piero ci ha lasciati due anni fa. Sami per nostra fortuna è ancora con noi. Ultimamente, abbiamo fatto un documentario insieme. L’ho seguito nella sua Rodi, dove è iniziata la storia della sua deportazione. Sami ha iniziato a parlare solo quando ha incontrato il suo amico Piero, conosciuto ad Auschwitz. Quello che Sami e Piero ci insegnano è il valore dell’amicizia. Al giorno d’oggi, per molti l’amicizia è un semplice click sullo smartphone. La parola amicizia rischia di perdersi sui social network. Loro ci spiegano che non si riusciva a resistere alla “vita” nel campo senza un amico, soprattutto quando tutti i familiari deportati erano già passati dalla camera a gas. Un amico era qualcuno che riconosceva la tua identità. Loro condividevano ricordi, raccontavano barzellette l’uno all’altro e questo era un modo per dire «siamo umani, non sono riusciti a cancellare la nostra identità».
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