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di SIMONA MELORIO
IL binomio mafie-economia non è nuovo. Fin dalla loro origine le organizzazioni criminali di stampo mafioso hanno occupato spazi dell’economia, proponendosi quali organizzatrici di affari criminali, tutrici di mercati illegali (come nel caso di prostituzione e gioco d’azzardo prima e, più recentemente, traffico di sigarette e traffico di droga). La novità degli ultimi venti anni sta nella loro presenza in spazi dell’economia legale.
I boss mafiosi, infatti, oggi non si limitano ad investire i proventi dei loro affari illegali in appartamenti e abitazioni di lusso, essi oggi occupano settori del mercato legale in cui investono per poter avere una “faccia pulita”, per poter dare spiegazioni delle loro ricchezze di fronte alla legge, per fornire un futuro non criminale ai propri discendenti e per assicurarsi un’alternativa qualora il mercato illegale non fosse abbastanza remunerativo.
Non esiste una specializzazione dei mafiosi nell’economia legale, poiché essi, più che imprenditori, sono “prenditori”, colgono cioè le occasioni più vantaggiose di investimento, andandosi ad inserire in quei segmenti di mercato maggiormente dipendenti da relazioni con politica e burocrazia. Sono, per così dire, “consumatori abituali” di quella frequentazione del sistema politico-amministrativo legato alla corruzione e all’aggiramento della legge come sistema. Ed in questo modo di agire le imprese mafiose non costituiscono un unicum, condividendo tale modo di fare con quella parte dell’economia non mafiosa che, corrompendo pubblici ufficiali e eludendo le leggi dello Stato, si pongono sul mercato con prepotenza, perseguendo i propri esclusivi interessi. I mafiosi in questo senso non inventano niente, non sono inventori dei cosiddetti reati economici, che però perpetrano e utilizzano come sistema vantaggioso.
L’evasione fiscale, i paradisi fiscali, il riciclaggio, la corruzione sono comportamenti di imprenditori non mafiosi da cui quelli mafiosi prendono esempio. Se, come ha avuto modo di scrivere Isaia Sales, le mafie sono ‘scimmie’ (copie) delle classi dirigenti, perché rappresentano la continuità della concezione redditiera e speculativa dell’economia meridionale, delle stesse copiano anche i modi illegali di agire.
I mafiosi imprenditori spaziano negli stessi territori e utilizzano gli stessi mezzi giuridico-finanziari di alcuni protagonisti dell’economia attuale, di quei “colletti bianchi sporchi” che viziano un’economia sempre più al servizio delle regole di un mercato amorale e sempre meno controllata dal diritto statale. Il mondo illegale dell’economia e quello mafioso si incontrano in crocevia, in zone franche condivise anche attraverso la mediazione di professionisti della finanza che forniscono loro consulenza fornendo soluzioni spesso al limite tra il legale e l’illegale.
I mafiosi si trovano a loro agio in quella speculazione spinta che froda e ruba e che vive della opacità tipica di una parte del capitalismo finanziario, essendo soltanto uno degli attori di quella “zona sporca” del sistema economico che si fa beffa delle norme dello Stato, perseguendo soltanto i fini del mercato.
Da questo punto di vista le mafie mostrano tutti i limiti e i lati oscuri del modello economico italiano, senza i quali non avrebbero potuto accedere ai mercati legali, né diventarne un attore riconosciuto, un soggetto economico tra tanti, mescolato sempre più vischiosamente a imprenditoria e politica. In tale panorama chiari limiti possono evidenziarsi anche nel sistema normativo, oggi ancora principalmente ancorato all’art. 416 bis c.p. che, se può essere valido per perseguire i tradizionali modi di essere mafiosi, non può di certo fare i conti con i nuovi modelli criminal-economici mafiosi.
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