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Rita Atria

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3 minuti per la lettura

di GIANCARLO COSTABILE*

MICHELINA Di Cesare e Rita Atria sono due donne del Sud che appartengono a momenti diversi della storia postunitaria delle terre meridionali. La prima è una brigante di metà Ottocento, nata nella vecchia provincia borbonica di Terra di Lavoro, oggi Caserta, e uccisa a ventisette anni dall’esercito italiano. La seconda è una testimone di giustizia siciliana, nativa del Trapanese, che sceglie di uccidersi a diciassette anni nel 1992, una settimana dopo la strage di via d’Amelio, in cui perse la vita Paolo Borsellino, il magistrato a cui Rita aveva rivelato i segreti della mafia locale.

Le biografie di Michelina e Rita sono generatrici di coscienza per la (ri)costruzione dell’identità meridionale: rappresentano il paradigma della cultura resistenziale che ha attraversato 156 anni di storia non ufficiale del popolo che abita i territori a Sud di Roma. Nei loro profili esistenziali si muove tutto il dissenso della nostra gente verso quel modello di Paese che prende progressivamente forma dopo il processo di Unificazione nazionale. Michelina, dopo essere stata uccisa dai militari, viene denudata e il suo cadavere, profondamente sfigurato e tumefatto, esposto nella piazza principale di Mignano, come monito per la popolazione locale. La sua colpa? L’aver condiviso le ragioni politico-sociali di certo brigantaggio che nasceva in aperta opposizione alle modalità (intollerabili) con le quali il Sud del Paese veniva governato in quegli anni.

Michelina Di Cesare

Rita Atria nasce in una famiglia mafiosa e decide di collaborare con la giustizia dopo l’uccisione del fratello Nicola. Rita aveva già perso il padre all’età di undici anni, vittima anch’egli delle sanguinose faide tra i gruppi mafiosi di Partanna. La sua colpa? Aver creduto nello Stato, o meglio in una parte di esso. Paolo Borsellino rappresentava per la Atria quello Stato che i meridionali non avevano (quasi) mai conosciuto nel periodo postunitario del Paese: forte nei confronti dell’arroganza dei potenti, e sensibile verso la disperazione dei più deboli. Il sangue di Michelina e Rita è il filo rosso che attraversa la storia delle donne meridionali: due volte vittime di un Paese che non ha saputo, o voluto, scoprirsi Comunità; che non ha saputo, o voluto, sentirsi davvero Nazione; che non ha saputo, o voluto, parlare la stessa lingua; che non ha saputo, o voluto, condividere gli stessi sogni. Michelina sceglie di combattere per la terra nella quale era nata il 1841. Ma nei libri di storia non c’è traccia di lei, né delle stragi di Pontelandolfo e Casalduni.

Prevale una lettura agiografica del Risorgimento, sulla quale è forse arrivato il momento di porsi scientificamente più di una domanda. Rita ha deciso di mettere in discussione la cultura mafiosa della famiglia: sceglie di credere nello Stato di Borsellino e Falcone. Dai racconti del fratello Nicola, si rende conto che la parola mafia non declina soltanto l’orizzonte della criminalità organizzata. Capisce che la mafia è ‘potere politico’: è relazione con gli interessi governativi. E’ linguaggio del potere centrale attraverso il quale è stato pensato e gestito il sottosviluppo economico-civile del Meridione, ridotto a mera colonia interna.

Nel loro ribellismo ci sono le radici identitarie del nostro popolo: che non chiede vendetta, ma che ha scelto, nonostante tutto, di farsi Stato anche laddove lo Stato ha preferito non esserci. La r-esistenza del Sud – che è potere degli oppressi direbbe Paulo Freire – è destinata a costruire un’altra Italia: quella della Costituzione repubblicana, ancora largamente inapplicata.

*docente Unical

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