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“La paura ti trova” è il primo romanzo del giornalista del Corriere della Sera. Uno stile che conquista fin dalle prime righe, come accade con i suoi pezzi: «Se inizi come cronista di nera, non perdi l’abitudine a osservare il dettaglio». Intervista
di EUGENIO FURIA
DIRE che il giallo-noir “La paura ti trova” (Rizzoli, 18 euro) è l’esordio letterario di Fabrizio Roncone è in parte falso perché in molti dei suoi pezzi da prima firma sul Corriere della Sera, i politici e gli altri personaggi sono perfettamente letterari, incastonati come sono in quel «genere giornalistico della cronaca scritta per immagini» di cui ha parlato il collega Aldo Cazzullo. Conoscitore delle «viscere di Roma», ex Paese Sera e Unità, Roncone è stato inviato di guerra. La sua lingua è forbita e semplice allo stesso tempo, e soprattutto c’è tanta ironia nelle «ronconerie», come Mario Ajello le ha definite sul Messaggero elogiando lo stile del collega.
Il primo romanzo di Roncone è – per ricorrere a un termine forse abusato ma in questo caso adattissimo – un affresco della Capitale «senza l’amarezza del bianco e nero della dolce vita», come ha notato Enrico Fierro sul Fatto Quotidiano. Sergetto, Big Bubble e Bilancino sono ragazzi di strada, o meglio di borgata, pedine che si muovono anzi vengono mosse nel «gigantesco troiaio a cielo aperto» che è Roma. Si parte dalla spiaggia nudista di Capocotta per farsi inghiottire poi nella città di Mafia Capitale, Suburra e mondi di mezzo vari.
Marco Paraldi, ex cronista deluso da amori e lavoro, oggi oste in zona Campo de’ Fiori-piazza Farnese che si muove in Defender, non ha mai sopito il fuoco sacro del cronista. “La paura ti trova” è anche un compendio del giornalismo delle parole vuote masticate stando appresso alle cronachette o ai politici. Frulla tutto l’armamentario letterario – e, appunto, giornalistico – della Capitale, dai party in terrazza in stile Grande Bellezza alla élite malavitosa della Banda della Magliana, deputati cocainomani alla Cosimo Mele (qui la maschera è Ninni Battiato), trans con cockney meridionale, coatti e dame del generone romano dai doppi cognomi. Sembra un quadro di Guttuso o di Maccari più che il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo evocato nel trailer del romanzo, tra i luoghi del mito urbano (dal quartiere della sua infanzia, Testaccio, attraversato tenendo per mano l’amata mamma, a Cinecittà, la statua di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori) e il logo Rizzoli a sigillare via Del Corso in copertina.
Il gusto per la descrizione dei dettagli è mutuato dal cosiddetto “lead”, l’attacco dei pezzi giornalistici in cui i manuali dicono di mettere tutti gli elementi con il doppio obiettivo di fornire subito il quadro e conquistare il lettore. E l’incipit del romanzo, quasi per felice deformazione professionale, non si sottrae: «Il ragno scattò fuori agile e avanzò qualche centimetro tra i granelli di sabbia. Poi, di colpo, si fermò: era finito in una strana zona d’ombra. Venti centimetri sopra di lui, una mano grassa e con un anello d’oro al dito medio teneva immobile una ciabatta di plastica. L’istinto suggerì al ragno che sarebbe stato meglio filarsela. Ma è chiaro che quello era un ragno sfortunato». Il risultato è catturare il lettore, proprio come solo le grandi penne sanno fare, dall’inizio.
Qualche riga vuota, infatti, e ci si tuffa nelle acqua di Capocotta e soprattutto nel plot che è più che altro una centrifuga di volti e storie che vomitano slang, parolacce e formule con una cadenza da serie tv (l’ultima sequenza pare di vederla recitata). Nei ringraziamenti Roncone cita Chandler, che gli ha fatto «scoprire il piacere della scrittura», e «Don Wislow, modello inarrivabile», ma anche il suo bassotto Ciro.
Quanto c’è di autobiografico nella figura di Paraldi?
«Beh, intanto lui è un ex inviato speciale che, dopo una vita trascorsa nei giornali, ha deciso di aprire una vineria dietro Campo de’ Fiori. Poi, sì, con lui ho in comune anche qualche tratto del carattere. E insieme, certo, condividiamo alcune passioni: per la cucina di qualità e solida, di territorio, come dicevano gli chef qualche anno fa, pensando di parlare forbito. Per il Defender. E per i trench: anche se finora Marco Paraldi si è mosso sempre tra giugno e luglio, e quindi gli impermeabili sono rimasti nell’armadio».
I suoi personaggi hanno una cifra criminale più letteraria e raffinata di quella dei protagonisti (veri) di Mafia Capitale, o della Suburra del libro poi trasferito sullo schermo. Quanta Roma vissuta da lei in prima persona o scoperta grazie ai racconti di altri c’è in Sergetto, Big Bubble, Bilancino e gli altri?
«C’è la Roma che conosco, che ho vissuto negli anni in cui ero un cronista di nera a Paese Sera e poi la Roma che vedo ogni giorno, quando esco di casa ed entro in un bar, in un ristorante. Se cominci la professione facendo il cronista di nera, poi non perdi l’abitudine a osservare il dettaglio, il tatuaggio, il tic, o anche un modo di dire, di atteggiarsi, di gesticolare. In questo, Roma è una straordinaria miniera di tipologie umane, criminali e non. Ecco, io ho cercato di raccontare, sullo sfondo del romanzo, una città quotidiana, e non eccessiva, al limite, esasperata. Oggi Roma è una città orizzontale, senza alto e basso, dove il male e il bene si incontrano e si sovrappongono. Ti volti, e c’è un tipo losco, un rapinatore, uno spacciatore, un deputato cocainomane, un falsario. Giri l’angolo, e c’è una meravigliosa umanità».
Ha previsto dei sequel o magari dei prequel?
«Non era previsto neppure che scrivessi questo romanzo, quindi parlare di un secondo libro mi sembra prematuro. Certo mi sto accorgendo che molte persone che hanno letto il libro si sono affezionate ad alcuni personaggi: a Paraldi, il protagonista, soprattutto le donne, ad Agnese, soprattutto gli uomini… e poi molti hanno preso a cuore la sorte di Big Bubble, quel ciccione feroce ma dotato di una umanità speciale, struggente… Non lo so: intanto vediamo come va questo libro, poi…».
Le descrizioni di Roma restituiscono spesso un clima di decadenza. Crede che potrà esserci una rinascita per la città che periodicamente si riscopre “Capitale corrotta”?
«Io credo che Roma possa rinascere solo ed esclusivamente se tutti i romani, tutti insieme, riscopriranno il senso di comunità. Da quest’agonia, perché Roma è in agonia, o si esce tutti insieme, con piccoli grandiosi gesti quotidiani, o tutti insieme resteremo prigionieri del disastro di questa città, che comunque era e resta la città più bella del mondo».
Chi racconta, anche in forma letteraria, il degrado è spesso accusato di «gettare fango» su un luogo. La pubblicistica fiorita su Roma, così come su altre realtà difficili del nostro Paese – si pensi alle mafie radicate non solo al Sud – può in qualche modo accendere i riflettori e risvegliare le coscienze?
«I giornali e i tigì raccontano una realtà che tutti i romani, nessuno escluso, conoscono bene. Le coscienze sono già ben sveglie: quello che manca è uno scatto di orgoglio. I romani, purtroppo, sembrano aver smarrito la speranza, paiono rassegnati al peggio, come vittima di una condanna collettiva».
La figura del protagonista de “La paura ti trova”, tra le altre cose, dice molto della professione tra ieri e oggi. Lei viene da un passato glorioso e oggi scrive per la testata più autorevole d’Italia: come pensa sia cambiato il giornalismo dai tempi in cui lei cominciò?
«E’ cambiato profondamente, negli ultimi anni, il mestiere del giornalista, e ancora tanto, credo, è destinato a mutare. E però, oggi come trent’anni fa, quando misi piede per la prima volta in quella straordinaria bottega artigiana dell’informazione che era Paese Sera, un giornalista due cose deve saper fare: scrivere bene, far restare attaccato il lettore ovunque il suo racconto, lungo o breve, sia stato pubblicato: su un sito, piuttosto che su un foglio di giornale; e scrivere la verità».
Nei ringraziamenti cita Chandler e Don Wislow. Quali invece, se ci sono, i modelli italiani o comunque gli autori preferiti?
«Direi che ci sono moltissimi autori di valore in Italia: mi limito perciò a citare due maestri come Fruttero e Lucentini, e Giorgio Scerbanenco».
Da Massimo Lugli, altro cantore della Roma “nera”, al suo collega Paolo Foschi, sono molti i cronisti che decidono di sperimentare una nuova forma espressiva confrontandosi con il romanzo: è come un modo per rendere più durature le parole che al contrario, nei quotidiani, nascono e muoiono entro 24 ore?
«Sa che è un problema che non mi sono mai posto?».
E allora com’è stato confrontarsi con un nuovo approccio alla scrittura, nei tempi oltre che nei modi?
«E’ un lavoro diverso. E’ una stupidaggine dire che tanto siccome sei abituato a scrivere articoli, poi scrivere un romanzo ti viene facile. I tempi e la tecnica di scrittura, a mio parere, sono completamente differenti. E anche la testa, ad un certo punto, quando sei dentro la storia, ti accorgi che gira in modo diverso alla ricerca di una soluzione narrativa, di un piccolo colpo di scena…».
Lei ha inventato un genere nelle interviste ai politici. Che domanda farebbe al Roncone-scrittore per mettersi in difficoltà?
«Roncone, lei aveva un bel mestiere, e lo faceva anche con qualche soddisfazione: chi glielo ha fatto fare di scrivere un romanzo? Ci pensi bene, è una roba complicata, rischia molto…».
e.furia@luedi.it
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