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ROMA – Urne aperte in Abruzzo, dove dalle 7 di questa mattina 10 marzo si vota per l’elezione del presidente e del Consiglio regionale. I seggi si chiuderanno questa sera alle 23, quando inizieranno le operazioni di spoglio.A fronteggiarsi il governatore uscente Marco Marsilio per il centrodestra e Luciano D’Amico, che è riuscito a far coalizzare tutto il centrosinistra attorno alla sua candidatura.
Gli abruzzesi chiamati alle urne sono 1.214.984: 619.921 elettrici e 595.063 elettori. I comuni coinvolti sono 305. Cruciale il peso dell’astensionismo. Tre le rilevazioni dell’affluenza previste in giornata: alle 12, alle 19 e alle 23, a chiusura seggi. A seguire lo spoglio. Nel 2019, alle ultime elezioni aveva votato il 53,11%, vale a dire 643.287 persone su 1.211.204. I candidati in lista erano tre: Marsilio per il Cdx, che ottenne il 48% dei consensi, Giovanni Legnini per il Cs, che si fermò a 31% e Sara Marcozzi per M5s, al 20%.
Il Consiglio regionale è composto da 31 membri, con sette consiglieri per le circoscrizioni dell’Aquila, Teramo, Pescara, e otto consiglieri per Chieti. Oltre ai 29 consiglieri eletti nelle liste circoscrizionali, entreranno a far parte di diritto dell’Assemblea, il presidente eletto e il candidato alla carica di presidente che si è piazzato al secondo posto.
A differenza della Sardegna non è consentito il voto disgiunto: non vale ed è annullata la scheda che vede la preferenza per un Governatore e per liste e candidati al Consiglio regionale collegati al suo avversario. Diventa presidente della Regione il candidato governatore che ottiene il maggior numero di preferenze valide. Non è previsto il ballottaggio perché in corsa sono solo in due. La legge elettorale prevede un sistema proporzionale con una soglia di sbarramento per ogni lista all’interno di una coalizione fissata al 2% dei voti.
ELEZIONI IN ABRUZZO, ELLY SCHLEIN SPERA NEL BIS DOPO LA SARDEGNA
Elly Schlein ci spera: l’Abruzzo come la Sardegna. La segretaria Pd è convinta che si possa fare il bis, tanto più che stavolta il “campo” è non solo largo ma larghissimo, da M5s ai centristi di Renzi e Calenda, e in questi giorni si è fatta strada l’idea che “l’effetto Todde” possa aiutare a colmare il divario dal candidato del centrodestra Marco Marsilio. Il voto nelle regioni potrebbe dare una grande mano alla leader democratica, che deve fare i conti con la concorrenza del leader M5s e con le fibrillazioni della minoranza Pd, che è sempre più preoccupata per una linea ritenuta troppo focalizzata proprio sul dialogo con i 5 stelle.
Una vittoria anche in Abruzzo permetterebbe alla Schlein di prolungare quella tregua interna che si era incrinata sul terzo mandato e che è stata nuovamente imposta dal risultato sardo. Ma sarebbe anche una conferma per la linea “testardamente unitaria” che rivendica ogni giorno, nonostante la ritrosia di Giuseppe Conte e Carlo Calenda.
Il leader M5s non rinuncia ad incalzare il Pd, anche se adesso anche lui parla con più decisione della necessità di costruire un’alleanza. “Sono testardamente votato a costruire un’alternanza rispetto a questo governo”, ha detto giovedì sera a ‘Otto e mezzo’, riecheggiando l’avverbio che usa sempre la Schlein. Ovviamente sempre ribadendo che l’accordo può nascere solo “sulla base di principi e progetti seri e condivisi che ci consentano non solo di vincere ma di cambiare il Paese”. Ma, appunto, Conte ribadisce anche la distanza che lo separa dal Pd: “Sulla politica estera c’è molto da discutere”.
Del resto, dal punto di vista aritmetico i sondaggi danno ragione alla leader Pd, il fronte delle opposizioni unito sarebbe in grado di competere con il centrodestra già ora. E se è vero che le differenze sulla linea politica sono in alcuni casi profonde – dalla politica estera ai temi dell’ambiente dell’energia – è anche indiscutibile che le stesse divisioni si ritrovano anche nella coalizione di centrodestra. Senza contare che – sono convinti i parlamentari più vicini alla segretaria – molti dei distinguo visti fin qui vengono esasperati proprio a fini elettorali, per provare a capitalizzare voti in più alle europee.
Ecco perché la Schlein insiste con la linea “testardamente unitaria”, la segretaria è convinta che alla fine tutti dovranno prendere atto della forza dei numeri. E se i numeri stanotte fossero benevoli anche in Abruzzo la leader Pd si presenterebbe alle europee con due regioni strappate alla destra, un “bottino” che farebbe pendere parecchio dalla sua parte la bilancia di questa tornata elettorale.
IL CENTRODESTRA E LA MELONI IN PARTICOLARE NON PUÒ PERDERE
Se la Sardegna è stata lo scricchiolio, l’Abruzzo sarebbe il tonfo. Perché nella corsa alla rielezione di Marco Marsilio alla guida della Regione, Giorgia Meloni ha investito molto di suo, sia di politico che di personale. Basta un breve elenco a dare l’idea: è il suo collegio di elezione, è la terra che ha dato a Fratelli d’Italia il primo governatore della sua storia quando ancora la strada per palazzo Chigi era lontana, e poi il candidato è un amico fraterno, cresciuto con lei alla scuola politica di Colle Oppio. Non è un caso, insomma, se tra i meloniani si consideri l’Abruzzo – tra il serio e il faceto – come una succursale di via della Scrofa. Per questo, quella abruzzese oggi per la premier-leader Fdi è una sfida che semplicemente non può permettersi di perdere.
Le differenze con il caso Sardegna sono molte, troppe perché sia possibile trovare eventuali alibi di fronte a una sconfitta. In questo caso, infatti, non c’è il voto disgiunto, non ci sarebbe un Paolo Truzzu che potrebbe personalmente addossarsi la colpa del flop, né si potrebbe dire che la candidatura è arrivata all’ultimo minuto. Marco Marsilio è l’uscente e, paradossalmente, è proprio nella storia elettorale di questa terra che si potrebbe trovare un mezzo capro espiatorio: l’Abruzzo, infatti, finora non ha mai concesso il bis a nessun presidente di Regione. E’ vero, in questo caso il centrosinistra è riuscito a costruire un unico campo larghissimo attorno alla candidatura di Luciano D’Amico, ma nemmeno puntare il dito – come Meloni ha fatto durante il comizio di Pescara – sui leader della fazione avversa che “si vergognano” a dire che stanno insieme, potrebbe bastare a costituire una via di fuga.
Sarà forse per tutte queste ragioni che intorno alla presidente del Consiglio si dicono fiduciosi sull’esito di queste elezioni, anche se si ammette che nelle ultime settimane il divario tra i due sfidanti si è molto accorciato. Meloni allontana da sè il rischio domino dell’effetto Sardegna e si dice “ottimista”. Ma per sicurezza ha spedito ministri e parlamentari in lungo e in largo in Abruzzo a raccontare quello che il governo ha fatto e i soldi che ha stanziato per la Regione e due settimane prima del voto si è premurata di far approvare dal Cipess i fondi per la ferrovia Roma-Pescara. D’altra parte le infrastrutture, insieme alla sanità, sono i due temi caldi su cui si è giocata la campagna elettorale.
E’ per tutte queste ragioni che una eventuale sconfitta difficilmente potrebbe essere raccontata come un insuccesso del candidato. Ma nemmeno della coalizione nel suo complesso. I tre leader del centrodestra non hanno mancato di presentarsi tutti e tre insieme in Abruzzo per un comizio a sostegno di Marsilio, ma la competizione interna ai partiti della maggioranza cresce inevitabilmente di giorno in giorno man mano che si avvicinano le Europee, ossia la sfida che, sull’altare della legge proporzionale, porterà tutti a contarsi a quasi due anni dall’inizio del governo. Ed è proprio per questo che mentre si dichiara che “si vince assieme e si perde assieme” sono tutti pienamente consapevoli che magari il successo si potrà anche condividere ma il tonfo sarà sulla testa di uno solo. E per l’Abruzzo quella testa è quella di Giorgia Meloni.
Gli scossoni degli ultimi mesi, soprattutto causati dalle corse a distinguersi del leader della Lega, con ogni probabilità si moltiplicherebbero se per due volte di seguito, in meno di un mese, un candidato con il marchio meloniano doc dovesse perdere la sfida elettorale per la presidenza della regione. C’è sempre, ovviamente, la possibilità di dire che si tratta di un voto locale e che palazzo Chigi è un’altra cosa. Peccato che a questa teoria non creda nemmeno la presidente del Consiglio che in più di una occasione, da quando è a capo del governo, ha ribadito quella che è una sua convinzione da sempre: il voto amministrativo, con le debite valutazioni sul peso delle dinamiche locali, è sempre anche un giudizio sullo stato di salute del governo.
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