La premiazione della Francia
5 minuti per la letturaC’è Tabarez, l’allenatore dell’Uruguay, settanta anni, malato, aggrappato alla stampella: negli occhi la frenesia di prendere a calci i guai, i mali e le ingiustizie della vita. E c’è Neymar, la stella del Brasile, 24 anni, che si rotola per terra dopo un pestone, come un bimbo isterico e capriccioso, pieno di soldi e vuoto di pensieri.
Sono le immagini che i mondiali di Russia consegneranno alla storia, quella che non conta le reti segnate, che non dà importanza a chi vince e a chi perde. La storia che cerca eroi e favole da tramandare agli uomini-bambini, che ancora sperano e sognano. Agli eterni prigionieri di un fanciullesco incantesimo, ammaliati da una sfera che regala gioia e sofferenza, euforia e umore tetro.
La serena disperazione di Tabarez e le patetiche esagerazioni di Neymar, fanno parte dello stesso circo del pallone impazzito: un giocattolone d’oro nelle mani delle Tv, degli sponsor, delle esagerazioni e le storture dei ricconi, disposti a pagare, per egocentrismo e vanità, anche 50 milioni all’anno a un tizio solo perché fa gol. Mica un ricercatore da Nobel o l’inventore dell’elisir dell’immortalità. Un carrozzone con sempre più regole e sempre meno storie.
Troppi affarismi, poca anima. Un carrozzone che non sa più cogliere e raccontare le fiabe che, talvolta, i calciatori creano in modo spontaneo, senza schemi e rigide tattiche. Come antichi ragazzoni e non come moderni, privilegiati gladiatori assopiti dal benessere. Quello che finisce oggi, è stato il mondiale delle novità e delle sorprese: la moviola in campo, la quarta sostituzione nei tempi supplementari, i cartellini gialli che decidono in caso di parità assoluta; l’eliminazione di squadre infarcite di campioni e favorite nei pronostici. Il mondiale dei portieri imbranati e delle supertifose prorompenti e bellocce, con le facce colorate. Una sfilata della gioiosa sensualità femminile del pianeta, subito oscurata dal divieto di riprese televisive ordinato dagli organizzatori bacchettoni della cupola del calcio.
Il mondiale degli allenatori sfiduciati. Il mondiale dei giocatori giapponesi, beffati all’ultimo istante, disperati e in lacrime, ma non fino al punto da lasciare lo stadio senza prima aver pulito gli spogliatoi. Il mondiale rattristato e distratto da tredici piccoli calciatori inghiottiti da una grotta. Ma è stato anche il mondiale delle Tv con il volume azzerato. Quanto chiacchierano i telecronisti di oggi.
Sono un supplizio. Pochi hanno un linguaggio seducente, brillante, gradevole, senza gergo e luoghi comuni. Tutte le partite raccontante allo stesso modo. Frasi fatte, piene di particolari inutili, noiosi, ripetitivi. A questo grigiore, si abbina spesso il commento tecnico di chi li affianca, le seconde voci, perlopiù ex calciatori e allenatori. I quali con toni sgraziati, enfatici, ci spiegano un’azione che abbiamo visto e rivisto già mille volte. Il malinconico e maldestro tentativo di opporre le parole all’invincibilità delle immagini. Dopo Brera, Ghirelli, Zavoli, Viola, Mura nessuno è riuscito a inventare nulla di originale nel racconto del calcio, a creare un alfabeto che non dia la sensazione di cose stantie, ascoltate all’infinito.
Non ha tutti i torti Beppe Grillo, quando propone di trasmettere le partite senza commento, per consentire di cogliere l’atmosfera dello stadio, i cori dei tifosi, l’entusiasmo dopo un gol. Invece la Tv della grande tecnologia, delle telecamere che inquadrano tutto, fin dagli spogliatoi, quelle che non si perdono una smorfia, un labiale con una parolaccia, viene sommersa, soffocata da un fiume di parole. Troppe. Soprattutto ai Mondiali, il calcio attira anche chi non lo segue tutti i giorni.
È un modo per ritrovarsi, di sentirsi parte di una comunità, di esultare e fremere insieme. Perché allora ammosciare con riflessioni piene di banalità o analisi più idonee a un corso per allenatori? Pensate che alla signora Matilde, che solo ogni quattro anni si mette sul divano a fianco al marito per tifare, possa interessare il movimento sbagliato di un difensore o di un attaccante? Se non l’hanno capito loro, che fanno solo questo, perché mai dovrebbe essere inculcato, spiegato a uno/una che nella vita fa altro? Nemmeno quando le partite si seguivano alla radiolina c’era uno spreco di vocaboli così esagerato.
Uno sport che deve il successo planetario alla semplicità, è stato trasformato in un compendio di statistiche, numeri e percentuali: un rompicapo inutile, dannoso, scoraggiante, complicato. Il tutto a scapito delle storie, delle curiosità, della bellezza delle giocate. In questi anni di migrazioni e di circolazione senza frontiere dei professionisti del pallone, ci siamo ritrovati a vedere squadre multicolori: calciatori neri che indossano con naturalezza magliette di nazioni nordiche, una volta in campo solo con atleti biondissimi e pallidi. È la novità che meglio sintetizza il cambiamento della società globale. Una cosa che rende più bello e intrigante il calcio di oggi. Ma stuzzicano anche i duelli in campo, le rivalità in nazionale fra compagni di squadre di club, dopo mesi di spogliatoi condivisi, di tempo libero insieme, magari allargato alle famiglie.
Questa variopinta promiscuità ha il suo apice a fine partita, al momento dei saluti. Il terzo tempo di abbracci, battute, scambi di maglie. È il momento di maggiore voglia per guardarli da vicino: Higuain e Dybala cosa si diranno con Mandzuckic? Invece, mentre in campo vincitori e vinti celebrano il rituale della fine delle ostilità, le Tv staccano in maniera nevrotica, per mandare in fretta gli spot pubblicitari. Peccato, ci perdiamo il lato umano del Pallone, il rispetto, la fratellanza dei reduci dopo la battaglia. Quell’aspetto in grado di farci sopportare meglio i 95 minuti di parole, parole, parole mentre noi continuiamo ad avere invece occhi solo per la palla, come da ragazzi. Quando il passaggio era un passaggio e non uno scarico; e nessuno si permetteva o si sognava di chiamare sciabolata un lancio di Rivera.
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