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Si è rotto il treno dell’Europa: la crisi della locomotiva tedesca aumenta gli egoismi nazionali

FACCIAMO i conti con la fine del riformismo italiano e non abbiamo coscienza fino in fondo dove propaganda e incompetenza possono condurci. Non vogliamo vedere che tutta l’Europa è percorsa da una crisi politica, con una trasversale lacerazione sovranista, ma noi a differenza degli altri uniamo alla crisi politica una persistente crisi economica. Non può essere un caso che gli unici due territori europei che non hanno raggiunto i livelli pre-crisi sono il Nord e il Sud dell’Italia.

Nell’immediato Dopoguerra e nel primo centrosinistra la politica ebbe il suo momento creativo, si misurò con la forte opposizione dei ceti conservatori – compresa una parte del capitalismo privato – che spararono a zero sul ruolo dello Stato in economia e temevano che i salari pubblici presumibilmente più generosi finissero con l’influenzare quelli privati. Successe anche questo, ma prima ancora accadde che un’economia agricola di secondo livello si trasformò in un’economia industrializzata e poi in una potenza economica mondiale.

Oggi come allora il Paese nel suo complesso, al Nord e al Sud, ha bisogno di un progetto di medio termine che si liberi dei troppi tabù che hanno ingabbiato lo sviluppo dell’Italia almeno negli ultimi venti anni. Ho già detto e lo ripeterò fino alla nausea: di classe dirigente non ne abbiamo due, ma a malapena una. Chiamiamo a raccolta gli uomini che hanno dimostrato di avere visione industriale e capacità operativa, non ci preoccupiamo troppo se sono avanti negli anni perché abbiamo bisogno di quel capitale per coagulare intorno ad esso il talento giovanile che stiamo regalando al mondo. Non se ne può più di questo balletto di microtasse da 5/600 milioni su una manovra da 30 miliardi e con un bilancio pubblico di 800 e passa miliardi. Tra mettere, togliere o rinviare si lavora solo per chi fa propaganda sovranista nelle piazze e si alimenta la sfiducia. Si chieda aiuto a chi è in grado di progettare il futuro del Paese da qui ai prossimi venti anni e la si smetta di giocare con un capitale privato che ha perso tutte le sue grandi scommesse e non ha le risorse per dare il contributo che serve.

Il Paese ha bisogno di società pubbliche di mercato, non quelle in cui si parcheggiano gli uomini di partito, che tornino a fare politica industriale che per noi vuole dire esattamente due cose: non uscire dai business strategici favorendo la crescita di nostri campioni nazionali e attuare la perequazione infrastrutturale fra Nord e Sud. Abbiamo riempito le società pubbliche di uomini che sanno fare la punta alla matita ma non sono capaci di usare quella matita per fare un disegno industriale. Abbiamo scoperto che lo stesso difetto è emerso nelle grandi e medie aziende private dove gli uomini della finanza piacciono tanto agli imprenditori viscerali italiani perché tagliano tutto, portano a casa utili o rendite, non chiedono di fare investimenti.

Noi dobbiamo fare l’esatto contrario nell’industria, a partire dall’acciaio, e nell’offerta turistica, a partire dal futuro della compagnia di bandiera. Bisogna tornare a quando la grande impresa, penso alla Finsider ma anche alla Fiat, faceva i suoi investimenti al Nord e al Sud e agiva nel mondo con una dimensione nazionale alle spalle che le permetteva di essere un player globale.

Se non torniamo a fare questo la scorciatoia dell’interdipendenza tra Nord Italia e Nord Europa si rivelerà solo la strada più veloce per farci inglobare da tedeschi e francesi. Dobbiamo ragionare unitariamente soprattutto ora che il treno europeo cammina in salita e anche le locomotive soffrono. In questi casi gli egoismi aumentano e il rischio che i vagoni di coda come quello italiano vengano staccati diventa reale. Di questo ci piacerebbe che si parlasse non di microtasse che non cambiano nulla.

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