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Il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri

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LA riforma della giustizia proposta dal ministro Marta Cartabia divide politica e magistratura, ma trova soprattutto in quest’ultima categoria una condivisione di intenti in quei magistrati impegnati in prima linea e consapevoli dei rischi che corrono molti processi.  

Nicola Gratteri, il procuratore capo di Catanzaro considerato da tutti il rappresentante di punta di questo gruppo di magistrati particolarmente critici, ha ribadito più volte i rischi di questa riforma, primo fra tutti quello che l’improcedibilità possa demolire il 50% dei processi.  

A confermare questa tesi, in una intervista al Sussidiario.net, è Mario Morra, giudice del Tribunale di Milano, magistrato napoletano che proprio nel capoluogo campano ha svolto sia le funzioni di giudice del dibattimento che quello per le indagini preliminari. La sua è una esperienza conquistata sul campo, essendosi occupato di centinaia di processi contro la criminalità organizzata, quindi di criminalità economica e appassionato di diritto comparativo.

Ed è proprio Morra a confermare tutti i dubbi di Gratteri sul rischio di affossare il 50% dei processi con l’improcedibilità prevista dalla riforma: «E’ un dato di fatto che attualmente molte corti di appello non riescono a concludere tutti i processi entro due anni. Io non credo che ciò dipenda dal fatto che i colleghi se la prendano comoda, anche perché già ora i ritardi ingiustificati sono sanzionati disciplinarmente, tema che so esserle particolarmente caro».  

Per questo, anche Morra lancia l’allarme: «Per molti processi dunque si arriverà gioco forza all’improcedibilità; questo non danneggerà i magistrati, ma i cittadini. In Italia vengono mediamente commessi 5mila reati al giorno. Salvo alcune figure di reato che forse potrebbero essere depenalizzate, per la stragrande maggioranza dei casi si tratta di reati che ledono interessi meritevoli di protezione. Al di là dei reati di criminalità organizzata, che continuano a costituire un’emergenza per questo paese – ha spiegato il giudice Morra – pensi ai furti in abitazione, alle rapine, alle migliaia di truffe agli anziani, alle aggressioni, alle bancarotte fraudolente, ai reati legati agli infortuni sul lavoro, ecc., sono tutti reati che ledono una vittima e che, tra l’altro, vengono generalmente commessi in modo seriale. La ragionevole convinzione da parte del reo di non dover subire le conseguenze della propria condotta costituirà un ulteriore incentivo a delinquere. Il prezzo della riforma non sarà pagato dai magistrati, ma dalle vittime dei reati, dai comuni cittadini, alcuni dei quali ingenuamente pensano che l’obiettivo sia quello di limitare lo strapotere dei magistrati, senza però rendersi conto che, almeno le proposte principali, non hanno alcuna attinenza logica con questo scopo». 

C’è, dunque, una condivisione sui temi rispetto agli allarmi evidenziati dal procuratore Gratteri che, pochi giorni fa, intervenendo a Girifalco alla presentazione del suo libro “Non chiamateli eroi”, scritto insieme ad Antonio Nicaso, ha affermato: «La riforma è un grande regalo alle mafie», aggiungendo che questo avviene da parte «di tutte le forze politiche, visto che ora sono tutte al governo, tranne Fratelli d’Italia». 

Un grido d’allarme raccolto dal giudice Morra: «Credo che i magistrati, occupandosi tutti i giorni di processi, a differenza di politici e commentatori, siano in grado di valutarne meglio gli effetti reali, non solo sul proprio lavoro, ma sulla collettività. Una cosa infatti andrebbe chiarita: in relazione agli aspetti più censurabili della riforma, mi riferisco in particolare all’improcedibilità nei giudizi di impugnazione, i magistrati non hanno nessun tipo di privilegio da difendere nell’opporsi a tale riforma, anzi, paradossalmente con l’improcedibilità sarebbero esonerati dal compito di gestire e decidere complessi procedimenti e poi scrivere le relative sentenze». 

Secondo il giudice campano, «la riforma proposta, con l’introduzione della cosiddetta improcedibilità, non velocizza i giudizi, si limita semplicemente a ridurre il numero dei processi che potranno concludersi con un accertamento definitivo».  

La convinzione di Morra, ribadita spesso anche da Gratteri, è che «il vero nodo è il numero dei processi da gestire. Solo per limitarsi all’ultimo rapporto Cepej, relativo ai dati del 2020, rispetto alla popolazione e al numero dei giudici, in Italia ogni anno vengono proposti il doppio degli appelli presentati in Spagna ed il triplo di quelli proposti in Francia. Significa quindi che per ogni processo d’appello gestito dal collega francese, il giudice italiano ne deve gestire tre, il che imporrebbe ovviamente il triplo del tempo. Con la riforma invece il tempo si riduce e la conseguenza sarà solo che per alcuni processi non sarà possibile accertare la responsabilità». 

Smentita anche l’ipotesi che l’improcedibilità non riguarderà i reati più gravi: «Non si applicherà solo ai reati puniti con l’ergastolo», sottolinea Morra aggiungendo che «è punito con l’ergastolo solo l’omicidio aggravato o altri reati che comunque si incentrano sulla morte di una o più persone. Ma questi, fortunatamente, sono un numero sparuto. Per tutti gli altri reati, sulla scorta del testo attuale, l’improcedibilità sarà una eventualità estremamente concreta, anche per reati estremamente gravi legati alla criminalità organizzata, e la cosa più illogica e che si prescinderà totalmente sia da ciò che è avvenuto in primo grado – una condanna a 30 anni o un’assoluzione saranno sullo stesso piano –, sia dal tempo trascorso dal momento di commissione del reato, che in ipotesi potrebbe essere stato commesso pochissimo tempo prima della sentenza di primo grado». 

Tra le proposte avanzate dal giudice Morra quella della «non appellabilità delle sentenze di assoluzione (che però sono un numero minimo tra quelle che vengono appellate). Un’altra possibilità, a costo zero e dotata di una sua razionalità, era quella prevista nel progetto di riforma del precedente ministro Bonafede, che prevedeva la possibilità, per i reati meno gravi, che i processi in appello venissero decisi da un solo giudice anziché impegnarne tre sullo stesso affare come accade oggi». 

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Simone Saverio Puccio

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