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L’impossibile “redenzione”. Le statistiche confermano quello che tutti sanno e vivono sulla loro pelle ogni giorno all’ombra del Vesuvio e più in generale in Campania: l’adolescente che cresce (e delinque) in un ambito “camorristico” riesce difficilmente a trovare un’altra strada. I dati emersi dalla ricerca “La recidiva nei percorsi penali dei minori autori di reato” – realizzata dal Centro “ResIncorrupta” dell’Università Suor Orsola Benincasa – sono semplicemente impietosi.
I minorenni napoletani sottoposti all’istituto della “messa alla prova” dopo aver commesso reati che vengono definiti “in odore di camorra” – ossia tutti quelli che lasciano immaginare un rapporto tra i minori e le organizzazioni criminali di stampo mafioso (come spaccio di droga, uso di armi da fuoco, rapine, omicidi, estorsioni) – tornano poi a delinquere da maggiorenni nel 41% dei casi, è quella chi si chiama “recidiva” e che a livello nazionale si attesta al 22% (dopo qualsiasi tipo di reato). Dunque il doppio della media italiana.
Un dato inquietante che il professor Isaia Sales prova a commentare con il consueto garbo: «A 30 anni dall’introduzione in Italia all’interno del processo minorile dell’istituto della messa alla prova – spiega il docente di Storia delle mafie – possiamo dire che si tratta di uno strumento rieducativo abbastanza efficace ma non del tutto sufficiente a favorire il pieno reinserimento sociale dei minori soprattutto in aree come quella del Napoletano, cioè ad altissima densità di presenza di organizzazioni di stampo mafioso, nelle quali spesso “l’arruolamento” diventa un percorso dal quale difficilmente si riesce a tornare indietro».
La ricerca, coordinata dallo stesso Sales insieme alla criminologa Simona Melorio, è stata presentata ieri pomeriggio nell’ateneo del Corso Vittorio Emanuele nel corso di un incontro-dibattito al quale hanno preso parte anche Nicola Morra (presidente della Commissione parlamentare antimafia, che ha commissionato lo studio napoletano) e il procuratore Giovanni Melillo. Dall’esame dei dati è emerso che in Italia dal 1992 al 2016 c’è stata una crescita costante dei provvedimenti alternativi adottati dai Tribunali italiani: da 778 nel 1992 a 3757 nel 2016 (dati Dgm) con un’applicazione della messa in prova che sfiora oggi il 18% dei minorenni denunciati per i quali è iniziata l’azione penale, a fronte di un iniziale 2,9 % del 1992. E dopo Milano (276), Genova (274), Firenze (264) è proprio il Tribunale per i minori di Napoli (227) la sede processuale in cui sono stati emessi più provvedimenti nel 2016, confermando la costante applicazione della misura e collocando Napoli al primo posto nel 2012 e nel 2013, al quinto nel 2014 e al secondo nel 2015.
Nel 2016 in Italia la scelta ha avuto esito positivo nell’80,9%. Purtroppo però il dato napoletano è segnato dal ritorno al crimine: su un campione di 423 minorenni sottoposti alla messa in prova dal 2012 al 2016 dal Tribunale dei Colli Aminei, la recidiva ha toccato la quota record del 41,6% dei casi. Come si evince dal registro dei carichi pendenti: su 423 destinatari del provvedimento di estinzione del processo, ben 176 si sono resi protagonisti (da maggiorenni) di altri reati.
«La nostra ricerca non lascia dubbi sulla situazione esplosiva della criminalità minorile di Napoli e provincia – spiega la criminologa Simona Melorio – e in questi casi risulta evidente che gli strumenti migliori messi in campo dallo Stato appaiono inefficaci. La speciale prevenzione affidata alla messa alla prova fallisce quando i minorenni tornano nel proprio ambiente. Un’esperienza limitata nel tempo non favorisce affatto un cambiamento di vita, poiché per molti dei ragazzi rei è una specie di “vacanza” breve da una vita in cui poi tornare. Il modello costante e quotidiano di vita, quello più “arrivabile”, concreto, reale è quello del clan del quartiere. L’orizzonte prospettico di molti minorenni rei napoletani resta così quello mafioso».
In conclusione, secondo Isaia Sales (coordinatore scientifico del Centro di ricerca “Res Incorrupta” del Suor Orsola): «La messa alla prova in casi estremi come quelli dei minori appartenenti ad organizzazioni mafiose appare essere uno strumento non abbastanza efficace». Per l’autorevole sociologo campano serve anche un intervento “culturale” e sociale preventivo perché «occorrerebbe utilizzare innovativi strumenti che possano garantire un accompagnamento costante e continuato ai minorenni in ambienti di mafia, fin da piccolissimi e prima ancora che commettano un reato, nell’ottica della costruzione di una alternativa in termini concreti alla devianza».
Parole che fanno venire in mente i tanti appelli lanciati nel corso degli ultimi decenni e rimasti sempre colpevolmente inascoltati. E senza voler arrivare a inquadrare i primi fenomeni di criminalità minorile già evidenti nelle loro peculiarità nel corso dei secoli scorsi (specie nell’Ottocento), chi ha i capelli bianchi ricorda nitidamente gli appassionati e straordinari reportage televisivi di Joe Marrazzo dedicati proprio agli scugnizzi napoletani alle prese con scippi, furti e spaccio, che erano altrettanti Sos rimasti anch’essi senza risposte concrete.
Nel 1997 la psicologa Laura Aleni Sestito pubblica il volume “La camorra e i bambini” e scrive: «La popolazione infantile è da considerarsi a rischio non solo e non tanto per le condizioni materiali di vita, per le difficoltà di ordine economico, per lo svantaggio socio-culturale e scolastico, ma soprattutto per il deteriorarsi della qualità della vita nonché delle modalità di interazione sociale e di partecipazione alla collettività che ne conseguono, oltre alle peculiari connotazioni che in funzione di queste ivi assumono i fenomeni di devianza e di criminalità».
E quindi aggiunge: «Bambini a rischio, dunque, non nel senso delle teorie classiche che mettono semplicisticamente in relazione devianza e marginalità, o devianza e altre peculiari caratteristiche socio-culturali, bensì in considerazione di quell’insieme di fattori di “inquinamento” psicologico che possono interferire negativamente con l’iter dello sviluppo psico-sociale infantile».
Qualche anno dopo, nel 2004, sarà il presidente dell’Eurispes Gian Maria Fara (nell’introduzione a un impietoso rapporto intitolato “Criminalità, sicurezza e devianza giovanile a Napoli”) a indicare il pericolo: «Il quadro dell’ordine pubblico risulta aggravato dal dilagare di azioni violente di gruppi giovanili privi di qualsiasi codice e regola di comportamento, dal reiterarsi di episodi di violenza gratuita e ingiustificata (aggressioni violente, fenomeni di bullismo di quartiere o nelle scuole), dal crescente consumo di vecchie e nuove droghe tra i minori”. (…) Gli aspiranti giovani boss e fiancheggiatori delle principali organizzazioni camorristiche non sono più soli nello spargere il seme della violenza e della prepotenza». Ma è un elenco, quello delle ricerche, degli studi e degli appelli caduti nel vuoto, che appare troppo lungo anche solo per essere sintetizzato. Lungo come quello delle vittime della criminalità minorile, camorristica e non.
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