Henriette D'Angeville
6 minuti per la letturaHenriette D’Angeville, la prima donna a conquistare (davvero) il Monte Bianco
Henriette si guardava intorno tutti i giorni, con il tempo buono e con quello cattivo. Studiava le montagne delle Alpi francesi con occhio tecnico; voleva scalarle tutte, una in particolare: il Monte Bianco. Il Monte Bianco è il gigante delle Alpi, appartiene alla sezione delle Alpi Graie, la seconda di quelle che compongono la catena a partire da Occidente: “Ma Con Gran Pena Le Reca Giù”, si insegnava agli alunni, una frase cantilenata che li aiutasse a memorizzare la sequenza delle sezioni, Marittime, Graie, Cozie, Pennine, Lepontine, Retiche e Carniche, Giulie.
Il Monte Bianco è accreditato di una misura di oltre 4.800 metri di altezza: la più alta d’Europa se si considera il Caucaso in Asia, ma non tutti lo fanno; laggiù è il Monte Elbrus, che misura, nella sua cima più alta, 5.642 metri e che è la montagna alla quale, secondo la mitologia greca, era attaccato per sempre Prometeo, il Titano punito per l’eternità per aver “rubato” il fuoco agli Dei dell’Olimpo ed averlo donato agli uomini. Oltre l’Elbrus, spiccano nel cielo del Caucaso il Dykh Tau, 5.205 metri, lo Shkhara, 5.193 metri e il Kazbek, 5.047.
Henriette D’Angeville era nata in una nobile famiglia francese, i conti d’Angeville. Aveva trascorso la sua prima infanzia presso il castello di Semur-en-Brionnais, il più antico castello fortezza di Borgogna, costruito su di uno sperone roccioso a 400 metri di altitudine, con tutto intorno un borgo medioevale, chiese e case color ocra, che è tutt’oggi nella lista dei borghi più belli di Francia. La contessina, che era del 1794, ci restò i primi anni, poi con tutta la famiglia andò a vivere nel Bugey, una regione in un’ansa del Rodano, tra le montagne del Giura: erano tempi difficili per l’aristocrazia francese quelli di fine Settecento e i conti d’Angeville si misero al sicuro nelle valli, dopo che la ghigliottina s’era abbattuta tra capo e collo del nonno di Henriette e dopo che i genitori della contessina avevano trascorso qualche periodo nella Conciergerie, la prigione dove erano stati trattenuti anche l’ultimo Luigi di Francia e la vituperata Maria Antonietta.
La contessina crebbe “montanara”: quando partì per scalare il Monte Bianco aveva 44 anni (“Ho 44 anni, 5 mesi e 24 giorni, per l’esattezza! Gli anni! Gli anni sono come i giorni, si susseguono, non si sommano” diceva, civettuola, la nobildonna). Era ormai una provetta alpinista: aveva già scalato il Mont Joli, 2.525 metri, in Alta Savoia,e il Jardin de Talèfre, un’isola verde per la vegetazione, incastonata tra due ghiacciai, all’altezza di 2.787, sempre in Alta Savoia, proprio nel massiccio del Monte Bianco. Queste imprese “da maschio” servirono molto all’ossessione di Henriette D’Angeville negli anni in cui cullò la “pazza idea”, come la definivano i benpensanti, di essere la prima donna a conquistare il Gigante delle Alpi, arrampicandosi con mezzi propri.
Il primo uomo, che poi erano in due, arrivò in cima l’8 agosto 1786: erano il dottor Michel Gabriel Paccard, quasi trentenne medico condotto nel suo paese natale di Chamonix, che più volte aveva tentato la scalata in compagnia di altri appassionati, e che per il tentativo che avrebbe avuto successo aveva scelto come compagno di cordata Jacque Balmat, venticinquenne, anche lui di Chamonix, cacciatore di camosci e cercatore di minerali preziosi.
La faccenda dei mezzi propri era particolarmente importante per la contessa d’Angeville: un’altra donna, in effetti, era già salita sul Monte Bianco. Era una giovane cameriera valligiana, Marie Paradis, 23 anni, che aveva fatto parte di una spedizione di successo nel 1808 ma che lassù era stata portata, trasportata, dagli uomini della missione, perché, raccontò poi, era talmente sfinita da implorare gli uomini “lasciatemi qui, gettatemi in un crepaccio” e comunque era arrivata in cima a suon di spinte, “soffiando come una pollastrella spennata”.
Henriette D’Angeville portò avanti il suo progetto infischiandosene con nobile distacco del resoconto tragicomico della servetta, ma anche delle catastrofiche diagnosi che i soloni della medicina avanzavano sugli effetti che quella fatica avrebbe prodotto sul fisico di una donna, e perfino di quella signora inglese che le chiese a bruciapelo se non sentisse la responsabilità di mettere a repentaglio non solo la propria vita ma anche quella di guide e portatori; sei per categoria più un mulattiere.
La contessa, con numerica precisione sulle famiglie dei prescelti, rispose: “Al massimo una valanga farà sei vedove e ventisette orfani in più”. Si dedicò alla meticolosa preparazione dell’equipaggiamento: tenne un apposito quaderno su cui annotò tutto, un “Carnet Vert”, come chiamò quel diario, una specie di scatola nera della vicenda. Provvide alla propria personale bardatura che la avrebbe protetta durante l’ascensione e che pesava sette chili: la descrisse lei stessa, trascurando, con il pudore di allora, l’intimo che invece nel Terzo Millennio sarebbe stato il cavallo di battaglia d’ogni “influencer”.
Si trattava di un vestito di lana scozzese a quadri, quella usata dai clan per i kilt, di ghette, scarpe pesanti, e, andando all’altro estremo, di una cuffia foderata di pelliccia. Da qualche parte mise uno specchietto per controllare l’arrossamento delle guance, un fornelletto per preparare il thè, un cannocchiale, una gabbietta con un piccione viaggiatore, un ventaglio enorme che gli accompagnatori avrebbero dovuto sventolare se le fosse mancata l’aria. Scale di legno facevano parte dell’attrezzatura: sarebbero servite a passare sopra i crepacci.
Puntigliosa la descrizione fatta dall’avventurosa nobildonna delle vivande per rifocillare l’intera comitiva: “Due cosciotti di montone, due lombate di vitello, 24 polli arrosto, 6 pagnotte da quattro libbre, diciotto bottiglie di vino Saint Jean, una bottiglia di acquavite di cognac, una bottiglia di decotto di capelvenere, un barilotto di vino comune per lo spuntino dei portatori, 12 limoni, tre libbre di zucchero, tre di cioccolato e tre di prugne, la crema blanc-manger, una borraccia di latte di mandorla, una di limonata e una pentola di brodo di pollo”.
Partirono alle due della notte. Henriette ebbe dei momenti di crisi; qualcuno le propose di prenderla in braccio e portarla fino in cima, ma lei non era una servetta di Chamonix; rifiutò, proseguì barcollando ma proseguì. Si fece prendere in braccio soltanto quando fu in cima: voleva andare ancora più su, dopo aver brindato. Voleva guardare il panorama da un punto di vista particolare. Si fece dare la gabbia e liberò il piccione. A Chamonix un cannone sparò a salve. “Avete avuto il grande merito di andare sul Monte Bianco, ma bisogna convenire che il Monte Bianco ne avrà molto meno ora che anche le signore possono scalarlo” le disse una guida sessista. Giù nella valle, verso Saint Gervais, la sera del 4 settembre 1838 su una tavola ignota di un contadino servirono un piccione arrosto…
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