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Carlo Parola visto da Roberto Melis

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Aveva fatto il calciatore a Cuneo, città del Piemonte, dove il maestro Antonio Scannegatti, interpretato da Totò, aveva fatto il militare, diventando così un uomo di mondo, come raccontato all’onorevole Trombetta, secondo una scena in treno e una battuta del dialogo che è divenuta un luogo comune.

Era lì che Carlo Parola si era trasferito bambino con la mamma rimasta vedova, da Torino dove era nato nel 1921. Tornò a Torino dopo aver cercato di conquistare il mondo in bicicletta: il meglio di questa carriera ciclistica fu un secondo posto in una Torino-Bardonecchia, corsa in salita, l’alta velocità in Val di Susa inseguita solo pedalando, giorni antichi.

Dietro l’angolo non ti aspettava un “no Tav” armato di pietre e bastoni, o perfino di esplosivi, ma soltanto un tifoso pronto a darti tutt’al più una spinta.

A Torino si reinventò calciatore, prima in una squadretta di quartiere chiamata Brianza, che era il nome della via dove era il campo da gioco (là dove c’era l’erba ora c’è una città, per cantarla con Celentano, il ragazzo della via Gluck). Poi, dopo qualche altro ingaggio serale, s’acquartierò in Fiat, nel Dopolavoro, operaio di giorno, calciatore di sera, e infine nella casa madre del calcio, nella Juventus, un’operazione da 750 lire al mese, alla faccia dei Mino Raiola e Jorge Mendes, i procuratori ancora di là da venire: era il 1939, stava per cominciare la guerra, cominciava la leggenda dell’uomo che fece della rovesciata un’opera d’arte.

Adesso poteva permettersi, senza tanti patemi d’animo, anche quel pacchetto di sigarette al giorno che lo accompagnò per la vita, unico sgarro alla morigeratezza piemontese, e che gli portò il nomignolo di “Nuccio Gauloises” che gli affibbiò il giornalista-scrittore Giovanni Arpino (lui lo chiamavano “il bell’Arpino”, rifacendo il verso al bell’alpino del coro di montagna) tirando in ballo la marca delle sigarette predilette da quel ragazzone che poteva giocare, e giocò, in tutti i ruoli, escluso quello di portiere perché il calcio non è gioco di mani ma di piedi (e di testa, direbbe il mental coach, ultimo ritrovato del pallone 2.0).

Carlo Parola giocò da centravanti e poi da centromediano, come si chiamava quella via di mezzo che poi si sdoppiò in libero e stopper e che i tempi moderni chiamano “i centrali”: un ruolo che era insieme distruttore di gioco altrui e costruttore di gioco proprio. La transizione, al mugugnante Carletto, la impose l’allenatore Felice Borel, che di secondo nome faceva Placido ma per tutti gli appassionati era “Farfallino” e che era stato giocatore della Juve e della Nazionale, tre scudetti con la prima nel famoso “quinquennio” e un titolo mondiale con la seconda, nel 1934.

Fu allora, in quella nuova posizione nello schema calcistico che si chiamava “sistema” e che non dava i numeri che danno gli schemi più moderni, il 4-3-3, il 3-4-3, il 4-3-2-1, il 4-2-3-1. il 3-5-2, il 5-3-2 e via combinando a maggior gloria del commentatore tecnico, la seconda voce nel concertino urlato della telecronaca all’estremo decibel, che Parola riscoprì la bicicletta. Stavolta non era il mezzo meccanico, ma il gesto tecnico: la rovesciata.

La rovesciata era un gesto antico; gli storici del calcio, che vanno d’accordo quanto i virologi del Covid-19, l’hanno diversamente attribuita, mancando al fatto le “prove documentali”. C’è chi fa risalire la paternità a Ramon Unzaga, basco di Bilbao emigrato in Cile, anno 1914 circa, chi a David Arellano, cileno in tournée in Spagna con il Colo Colo, anno 1927; chi taglia più corto e attribuisce la giocata che venne battezzata “bicicletta” per il mulinare delle gambe pedalando l’aria, a Leonidas, brasiliano detto “Diamante nero”, il “politically correct” non era cosa da Anni Trenta. La esibì durante i mondiali del’34: fu lasciato a riposo nella semifinale contro l’Italia per averlo fresco alla finale, ma non ci arrivò perché ci andò l’Italia che poi vinse il titolo con il citato “Farfallino” tra gli altri.

È probabile che la rovesciata più famosa del mondo sia quella che fece Pelè. Al cinema. Girava “Fuga per la vittoria”, aspettava in area il cross di Michael Caine, l’attore, e spediva in rete. “Non ti preoccupare se non ti riesce subito, abbiamo chilometri di pellicola da girare” gli fece per tranquillizzarlo il regista John Huston. Pelè sorrise. Il cross arrivò preciso, anche perché partiva dal piede fatato del calciatore polacco Deyna e poi la cinepresa staccava su Caine. Pelè volò, e fu gol. “Buona la prima” fece Huston meravigliato.

Tutte queste rovesciate avevano la mira del gol da realizzare, quella di Carlo Parola nello stadio di Firenze il 15 gennaio 1950, Fiorentina-Juve, ebbe il compito contrario. Ottantesimo minuto, zero a zero. Un cross di Augusto Magli sale come aquilone verso l’area bianconera dove sta per arrivare, a botta sicura, Egisto Pandolfini. Ma sulla traiettoria, proprio davanti al portiere che si chiama ironicamente Viola come la maglia della Fiorentina, arriva Parola e adesso il volo è umano: prende il pallone in rovesciata e lo spazza via.

In quel attimo, mentre già stava per riporre la sua Leica, il fotografo Corrado Bianchi (o Banchi: anche i giornalisti come virologi e storici non trovano l’accordo), fotografo di guerra a quel tempo dedicato alla pace del calcio, dette un ultimo sguardo dentro l’obiettivo: fin lì non gli era riuscito lo scatto da vendere ai giornali. Ma colse il secondo: quello di Parola, del pallone, della rovesciata. Sarebbe diventata, rielaborata dai disegnatori, l’immagine copertina, il marchio quasi, dell’Album Panini. E delle bustine di figurine che hanno fatto la felicità di tutte le generazioni, prima dell’elettronica. Pare che ne siano stati venduti 200 milioni di esemplari.


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