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Thomas Tom Simpson Illustrazione di Roberto Melis

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Il “caso Simpson” non è qui quello di Wallis, l’americana divorziata di Baltimora, per amore della quale un re d’Inghilterra rinunciò al trono, né quello di Orenthal James, l’americano divorziato di San Francisco, “OJ” per tutti, famoso prima come running back sui campi del football americano e poi come presunto assassino dell’ex moglie, fuggitivo sull’autostrada della California, inseguito in diretta tv dalle auto della polizia e poi assolto, e più tardi come rapinatore a mano armata, condannato.

Questo “caso Simpson” è quello di Thomas detto Tom (o Tommy), inglese, ciclista, felicemente coniugato, che la Regina fece baronetto, colpita dalla rarità, oltre Manica, dell’impresa sportiva che Simpson compì: la vittoria nella Milano-Sanremo, insolita a quei tempi (era il 1964) per uno sportivo britannico. Le glorie inglesi sui pedali, e sulle strade di mezzo mondo, erano ancora lontane: c’era stato sì il pistard Reginald Harris di Manchester con i suoi quattro titoli mondiali, ma lo tsunami di Union Jack sui velodromi con Chris Hoy e compagni di pedali era allora inimmaginabile, come l’avvento della generazione di Sir Bradley Wiggins o di Chris Froome, per non citare che due dei tanti del Terzo Millennio.

Questo “caso Simpson”, che accadde il 13 luglio 1967, ebbe per scenario, nella tredicesima tappa del Tour di quell’anno, il Mont Ventoux: “Fisicamente il Ventoux è terribile. È calvo. È l’essenza dell’aridità. Il suo clima lo rende un terreno dannato, un luogo adatto agli eroi. È come il più alto degli inferni. Il Ventoux è un Dio del Male al quale bisogna sacrificare. Non accetta debolezze ed esige un ingiusto tributo di sofferenze”, come lo aveva raccontato Roland Barthes, nei suoi “Miti d’oggi”, dieci anni prima del “caso”. La conquista di questo monte era già stata narrata sei secoli prima da Francesco Petrarca in una lettera al padre agostiniano Dionigi, di Borgo San Sepolcro, una lettera “sui propri affanni” che Petrarca scrisse fra cronaca e allegoria.

È probabile che Tommy Simpson non avesse letto né l’uno né l’altro. Sapeva, forse, che di lassù, 1912 metri sul livello del mare e un territorio dall’aspetto di Luna, bianco e deserto, il Tour era passato per la prima volta nel ’51, e che nel ’55, su quella cima, il campione svizzero Ferdi Kubler era stramazzato al suolo ed aveva annunciato il proprio ritiro dicendo semplicemente “Ferdi si è suicidato”. E forse Simpson sapeva pure che giusto nel marzo di quel 1967 il Mistral, il vento che con la complicità del sole dà a quegli ultimi cinque chilometri verso la vetta, l’aspetto di una montagna di sale che si vede da tutta la Provenza, soffiò a 313 chilometri l’ora, un record.

Simpson, ormai Sir, era divenuto campione del mondo nel ’65 e quell’anno aveva vinto anche il Giro di Lombardia. Ma voleva la consacrazione ciclistica che solo il Tour regala: difficile entrare in bicicletta nel Pantheon dei campioni se non vinci lì almeno una volta, tra i pochissimi Francesco Moser c’è riuscito.

Tommy era settimo in classifica generale quella mattina, partenza da Marsiglia, arrivo a Carpentras, città che era stata la prima sede del Papa e della Curia nel periodo del Papato di Avignone, dove uno chef di nome Silvestro aveva confezionato per primo i berlingots, caramelle di zucchero al sapore di menta, proprio per il Papa Clemente V. Ma non era di berlingots che si era approvvigionato Tommy nell’albergo di Marsiglia la notte prima della tappa: nella stanza dove alloggiava con Colin Lewis, uno dei tre gregari che gli erano rimasti nella squadra di Gran Bretagna, era stato raggiunto da un paio di ceffi italiani ed aveva acquistato, al prezzo di 800 sterline, alcuni tubetti di Mickey Finns, come le chiamava lui, un po’ gergale e un po’ letterario: erano amfetamine.

Simpson era stanco ma si finse allegro al raduno di partenza: gli organizzatori del Tour avevano distribuito foglie di verza da mettere sotto il berretto perché aiutassero i ciclisti a tenere la testa fresca sotto il sole; Tommy teneva in mano la borraccia e ne spruzzava l’acqua su quella verdura degli amici, benedicente come sulle palme della domenica prima di Pasqua. Si toccò i taschini posteriori della maglietta di cotone: Mickey Finn era lì.

Partirono verso Carpentras: bisognava passarci, poi scalare il Ventoux e ornarci dall’altra parte del Gigante della Provenza, lo chiamavano i locali, quel Dio del Male “salire sul quale non è da pazzi: lo è ritornarci” come scandiscono gli abitanti del posto.

Lì, quando la strada comincia a salire verso il cielo dove è invece l’inferno, sì incontrano prima una foresta che nasconde il sole, poi una macchia mediterranea e infine il nulla che lo svela, lo sposa con i venti che s’incrociano da sud e da nord e porta al nulla. Le pendenze sono anche del 15 per cento.

Jimenez, scalatore spagnolo, cominciò a menare la danza; Poulidor gli si incollò alla sella, superandolo di quando in quando ma non per aiutarne la fuga bensì per interromperne il ritmo perché il suo capitano, Pingeon, doveva difendere la maglia gialla. In quel gruppetto intrepido con loro tre erano Gimondi e Balmamion e, tra i pochi, Janssen che avrebbe vinto la tappa. Tommy cominciò ad arrancare quando fu investito dal sole senza riparo. Colin Lewis, il gregario, si fermò a un bar: prese una coca cola e un quarto di bottiglia di cognac per il capitano assetato e disidratato; passò Aimar, ciclista francese, e offrì una borraccia a Tommy che nemmeno si accorse del gesto. Aveva lo sguardo sperduto, le gambe pedalavano da sole e faticosamente, Tommy dov’era? Prese il cognac, bevve per mandar giù la compressa che aveva tirato fuori da uno dei tre tubetti. Andava avanti a zig zag che sembrava stesse per cadere da un attimo a quello dopo, attimi eterni. “On, on, on” diceva, “avanti, avanti, avanti”. Lo fermarono, lo sdraiarono su di una petraia, il medico del Tour, il dottor Pierre Dumas, gli praticò la respirazione bocca a bocca, un chilometro e mezzo più su Jimenez scollinava per primo e solitario. Fu ripreso nella discesa, mentre un elicottero arrivò per portare Simpson all’ospedale di Avignone.

In discesa ripresero Jimenez, fecero una volata a Carpentras; Janssen arrivò primo. Tommy arrivò morto ad Avignone. Nella chiesa sconsacrata di Carpentras dove era posta la sala stampa il dottor Dumas comunicò la tragedia: “Non è stata autorizzata la sepoltura” disse, annunciando l’autopsia. I risultati furono resi noti il 2 agosto: l’amfetamina fu catalogata come una delle cause, insieme con il caldo, il sole, il vento che aiutavano a nascondere quel che era successo quel giorno nel ciclismo, quando non erano arrivati soltanto Janssen al traguardo di tappa, Simpson alla fine della sua vita: era arrivato, ufficialmente, il doping nel ciclismo.


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