Bruno Bolchi
4 minuti per la letturaQuesto Maciste era milanese: aveva solo il nome, anzi per lui era un soprannome, del personaggio di fantasia mitologica creato da uno degli italiani più fantasiosi, Gabriele D’Annunzio, per il film muto “Cabiria” del 1914, un kolossal muto costato un milione di lire-oro al tempo in cui una produzione “normale” costava cinquantamila e che fu la prima pellicola proiettata nel cinema della Casa Bianca. Il Maciste nostro all’anagrafe si chiamava Bruno Bolchi e faceva di mestiere il calciatore. “Sì, va bene, gioca a pallone, ma di lavoro che fa?” chiedevano sospettosi i genitori della sua fidanzata e poi moglie per sempre.
Diventò Maciste per il fisico (era 183×80, misure che nell’Italia affamata del dopoguerra giganteggiavano o quasi), perché era di buon carattere, come il Maciste del Vate, e perché qualcuno (Gianni Brera) lo vide sedicenne nel 1957 fra i ragazzi dell’Inter e gli sembrò somigliasse (come il “parente misterioso”) all’attore Gordon Scott, che aveva 123 centimetri di torace e che, alla fine degli Anni Cinquanta era stato sei volte Tarzan ma poi era venuto in Italia partecipando da protagonista a molte pellicole del filone “peplum”, che raccontava, americanizzando ogni vicenda, la Roma antica e che era molto trendy all’epoca. Maciste era il gigante buono che Gordon Scott rappresentò più e meglio.
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Il Maciste con il pallone venne una volta fotografato, tipo foto tessera, in maglia nerazzurra ma l’immagine risultava in bianco e nero come accadeva per la maggior parte delle foto d’epoca. Era la vigilia del campionato e con quell’immagine piccola piccola due dei fratelli Panini bussavano alle serrande degli stampatori in quel di Modena e di Parma, esibivano il “santino” e chiedevano “riuscireste a farne un’immagine a colori?”. Il photoshop e i filtri non erano ancora prassi a portata di clic. Uno ci riuscì e Bruno Bolchi fu la prima figurina stampata per l’album del 1961, la colorazione si Faceva a mano. In copertina era un colpo di testa di Nils Liedholm, maglia rossonera, fondo giallo.
Il photoshop d’antan era piuttosto casareccio: è stato raccontato che si operassero veri e propri “trapianti” sostituendo la testa del fotografato in maglia d’ordinanza con quella del fresco arrivato del quale non si disponeva dell’immagine un po’ da casellario giudiziario. Un celebre caso è quello del decapitato Trapattoni milanista costretto a perdere la testa a favore del tedesco Schnellinger, arrivato all’ultimo momento mentre le figurine già giravano in tipografia.
Bolchi fu la prova di stampa e dette il calcio d’inizio al grande gioco del “cielo manca” (celo sta per ce l’ho, in una grafia che anticipava quella fantasiosa del web e del messaggino) che ha affascinato generazioni di bambini. Bolchi non poté mai dire “cielo” della sua, perché non riuscì a trovarla nelle bustine del desiderio, anche se qualcuno gliene fornì un’immagine tanto che Maciste ne fece quella del suo profilo whatsapp.
Il gioco in campo Bruno Bolchi lo cominciò da ragazzino nella “Garibaldina”, gloriosa società milanese, la squadra di Dergano e della Bovisa, ma presto passò alle giovanili dell’Inter, squadra nella quale divenne poi professionista ed anche capitano e con la quale vinse uno scudetto ai tempi d’inizio Sessanta, i tempi di Helenio Herrera, il mago allenatore che, diceva Maciste, “tutto sommato è stato un grandissimo. Ha dato una svolta alla preparazione e di conseguenza al modo di giocare. Faceva gli allenamenti concentrando tante cose in poco tempo, puntando tutto sulla velocità. Prima di lui, gli allenamenti erano giri di campo, saltelli, partitine. Il potenziamento muscolare e la resistenza non si sapeva cosa fossero, dalla panchina non è che fosse un’aquila, ma almeno tre doti su cinque come ogni allenatore dovrebbe avere lui le aveva sviluppatissime: preparazione atletica, tecnica, propaganda di se stesso. Come tattico e psicologo invece lasciamo perdere”.
Emanava forza bruta Maciste, ma non era mai brutale, pure se le cronache lo accompagnavano spesso con gli aggettivi “arcigno” e “coriaceo” che facevano parte del linguaggio comune dei cronisti sportivi del tempo. All’Inter restò sette stagioni, fino al 1963. Nel frattempo andò militare, e, non avendolo a tempo pieno, Herrera s’infatuò di Tagnin e glielo preferì.
Così Bruno Bolchi lasciò l’amore nerazzurro e, dopo una stagione al Verona ed una all’Atalanta, incontrò un nuovo calcistico amore: il Torino. Restò in granata dal 1965 al 1970, in campo per una vittoriosa Coppa Italia. Due anni dopo, era alla Pro Patria, un infortunio pose fine alla sua carriera di calciatore: aveva 32 anni e si spostò in panchina.
Fu gavetta, fu Giro d’Italia: fu il primo anno con la Pro Patria tormentoso, fra licenziamento, riassunzione, dimissioni obbligate. Le tappe di questo Giro durato 26 anni furono Busto Arsizio (la Pro Patria, appunto), Pistoia, la Valdinievole, Sorrento, Messina, Pistoia ancora, Novara, Bergamo, Cesena, Bari, Arezzo, Pisa, Reggio Calabria, Brescia, Avellino, Lecce, Lucca, Monza, Genova (il Genoa), Terni, Catanzaro, ancora Messina: dall’Alpi alle Piramidi si direbbe.
Furono quattro promozioni dalla serie B alla serie A, con il Bari un salto doppio salendo dalla C, con il Cesena, il Lecce e la Reggina. Un “mago” a modo suo: il “mago” Maciste, che un giorno del 1984, il 22 febbraio, con il suo Bari di serie C, riuscì ad eliminare agli ottavi di Coppa Italia la Juve di Trapattoni che schierava Platini, Boniek e i campioni del mondo del 1982, Gentile, Cabrini, Scirea, Paolo Rossi e Tardelli.
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