Massimo Palanca
5 minuti per la lettura«Non mi chiami mister, per tutti sono Massimo, ‘Massimé’ per la gente di Catanzaro».
Rifugge ogni formalismo Massimo Palanca, bomber e simbolo dell’era più entusiasmante della storia del Catanzaro, che vide, sul finire degli anni 70, la squadra calabrese militare per 6 anni in serie A, fra promozioni (due) e un ripescaggio. Nativo di Loreto (Ancona) e con un fisico minuto, questo rapace dell’area di rigore ha all’attivo 115 gol in campionato (fra A, B e C) con le “Aquile del Sud” con una specialità: le reti segnate direttamente da calcio d’angolo. Ma il mito di “piedino”, dell’”O’ Rey di Catanzaro” nasce in una data precisa: 4 marzo 1979, tripletta allo stadio Olimpico contro la Roma di Valcareggi e vittoria per 3-1 dei giallorossi calabresi. Un bomber baffuto a umiliarne un altro: Roberto Pruzzo, rimasto a secco.
Nel quarantennale di quell’impresa qualcuno l’ha chiamata da Catanzaro?
«Sì e non solo lo scorso 4 marzo. Ogni volta che qualcuno segna da calcio d’angolo puntualmente mi ricordano quella partita».
Cinque anni prima (stagione ‘74-‘75) l’approdo fra le Aquile giallorosse, che impatto ebbe con la piazza?
«Venivo da Frosinone e si trattò di un salto di categoria. La società aveva deciso di puntare su calciatori giovani e aveva cambiato l’allenatore. Facemmo un grande campionato di B perdendo poi lo spareggio a Terni con il Verona per 1 a 0. Fu una delusione, allo stadio ci saranno stati 30mila catanzaresi che si sentivano già in serie A. Noi però non eravamo sereni…»
Perché?
«Un grave incidente aveva coinvolto un pullman di tifosi calabresi. Ci fu un morto. Questa tragedia influì indubbiamente sul nostro umore».
La promozione arrivò l’anno dopo, cominciava l’epoca d’oro del Catanzaro. Qual era il vostro segreto?
«Il gruppo. Eravamo uniti, lottavamo tutti per lo stesso obiettivo. Ed eravamo amici. Si figuri che tuttora con i miei ex compagni ci vediamo e trascorriamo insieme le vacanze, grazie soprattutto alle nostre mogli che tengono il filo di questo rapporto. Ecco, era il gruppo il segreto di tutto; quello e l’ambiente…»
La città ebbe quindi un ruolo importante…
«Sì, perché era una realtà piccola che ti faceva vivere da vicino l’umore della gente. Per questo ho sempre abitato in città. Per capire il posto in cui ti trovi credo sia fondamentale conoscere le persone, parlare con loro, sapere quello che pensano».
È ricordato soprattutto per i gol segnati direttamente dal corner: come allenava questa specialità?
«Avevo una dote naturale per il tiro a giro. Venivo anche aiutato dai compagni: Claudio Ranieri, ad esempio, quando battevo un corner infastidiva sempre il portiere e chi si piazzava a difesa del primo palo. Mi agevolava, infine, il vento che normalmente tira su Catanzaro. Mi allenavo a calciare così pure per necessità, non avendo un fisico poderoso dovevo adattarmi come potevo».
Nell’81 approda a Napoli: appena 4 gol in tre stagioni, compresa una in prestito al Como. Cosa non funzionò?
«È il più grande rimpianto della mia carriera. Dopo Catanzaro ero entusiasta di cimentarmi in una squadra importante di un’altra città del Sud. Cominciò male: sbagliai due calci di rigore consecutivi in Coppa Italia. Poi fra piccoli infortuni e incomprensioni con l’allenatore non riuscì mai a sbloccarmi».
Iniziò così la fase più difficile della sua carriera…
«Sì, dopo l’ultimo anno a Napoli nessuno mi voleva più. Credo che qualcuno avesse messo in giro strane voci perché vedevo attaccanti senza i miei numeri giocare tranquillamente in A mentre io non venivo chiamato nemmeno da club di serie C. Colsi al volo l’opportunità di allenarmi col Foligno e, in assenza di altre offerte, disputai con loro due campionati. Il primo andò il bene, ma dopo il secondo la società fallì».
E si spalancarono le porte di un ritorno a Catanzaro, dove ritrovò il suo smalto…
«A 33 anni non mi sentivo finito ma avrei accettato solo offerte di club che conoscessi e Catanzaro per me era stato il massimo. Per l’età che avevo fui accolto con scetticismo dagli addetti ai lavori, ai quali piace sempre sparare sentenze. L’anno dopo vincemmo il campionato di C dopo una clamorosa rincorsa e io vinsi la classifica cannonieri. Nella stagione successiva solo qualche strano episodio ci precluse una nuova promozione in A».
Che ricordi ha del suo ritiro?
«Avevo 37 anni e l’allora presidente Pino Albano mi disse che mi voleva in società come tramite fra club, squadra e tifosi. Accettai ma l’anno dopo ci ripensarono, mi chiesero di allenare la Berretti e rifiutai».
Ma a Catanzaro continua a essere un mito anche per le nuove generazioni…
«E’ una cosa stranissima, probabilmente tramandata dai genitori, anzi da nonni (ride). Ogni volta che torno avverto un affetto incredibile, spesso mi invitano a parlare nelle scuole. Piccole cose che nel calcio di oggi sono difficili da replicare, ma che danno valore a questo sport. Il calcio è passione, non solo soldi e affari».
A proposito di calcio romantico, il suo amico Ranieri potrebbe fare un pensierino sulla panchina del Catanzaro dopo un’eventuale promozione in B?
«Magari, ma credo di no. L’anno scorso con la Roma ha fatto una scelta di cuore, non avrebbe preso altre squadre. E per cosa poi? Ha preso un gruppo allo sbando, l’ha portato in Europa e già si parlava di altri allenatori. È una vergogna. Lo stesso vale anche per il trattamento che sta ricevendo Giampaolo a Milano. Ecco, oggi il calcio è così…»
Continua a seguire la sua ex squadra?
«Certo e condivido l’ottimismo dei tifosi sulla nuova proprietà. Penso faranno le cose per bene, ammesso che programmino, intervenendo sui singoli problemi senza azzerare tutto alla fine di ogni anno».
Qual è la vita di “Piedino” oggi?
«Avevo un negozio d’abbigliamento a Camerino che dopo il terremoto abbiamo spostato a Castelraimondo. Da 20 anni sono anche selezionatore della rappresentativa regionale giovanile delle Marche. Però, ecco, non mi chiami mister, solo Massimo, o Massimé».
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