John Akii-Bua
5 minuti per la lettura“Eravamo (trattenete il respiro) 43 figli!”. Malcolm Arnold aveva appena aperto il primo dei 12 blocchi di fogli protocollo che gli aveva consegnato John George Akii-Bua. Cominciava così il racconto della vita di quest’ultimo, scritto di suo pugno, a matita. “Mio padre aveva otto mogli: ha vissuto una vita leggendaria”.
Akii-Bua era cresciuto in quella famiglia allargata fino ad essere una tribù dell’etnia Lango in Uganda, nella città di Lira, più di 300 chilometri a nord della capitale Kampala. Il plotone di mogli cercava di governare in qualche modo il battaglione di figli dalle età più diverse: ad esempio c’erano 17 anni di differenza fra i due olimpici di famiglia, Lawrence Ogwang, classe 1932, che aveva partecipato al salto in lungo e salto triplo a Melbourne ’56, ventisettesimo in qualificazione nel primo e ventesimo ma finalista nel secondo, prima volta dell’Uganda ai Giochi, e John George, classe 1949, il cui debutto olimpico fu fragoroso a Monaco ’72, nei 400 ostacoli: oro e record del mondo.
La povertà era di casa e di capanna nella famiglia Akii-Bua e quando il fecondissimo padre morì, e John George era adolescente, i più grandicelli, fra cui lui, dovettero smettere di studiare e andare al lavoro. Non lasciarono lo sport, comunque, pure se fatto in condizioni primitive, né impianti né abbigliamento, la solita storia dell’africano che corre a piedi nudi sull’erba o nella polvere.
Malcolm Arnold, gallese, viveva a Londra a quei tempi; anche lui era nel giro sportivo, insegnava precariamente educazione fisica e cercava un lavoro. In Uganda s’era installato un nuovo regime, quello del dittatore Idi Amin Dada, e lo sport era stato inquadrato come un fattore se non di crescita almeno di immagine. Il governo aveva fatto mettere un annuncio su Athletic Weekly, una rivista britannica (la Gran Bretagna era la ex “madrepatria” come si definivano i paesi colonizzatori pure se di materno avevano ben poco) un’offerta di lavoro per allenatori: 2000 sterline l’anno, vitto, alloggio e rimborso spese. Malcolm lo lesse, andò al colloquio a Trafalgar Square, tornò a casa, prese su moglie e due figli e un povero bagaglio e partì per l’Uganda.
John Akii-Bua avrebbe voluto saltare come il fratello più grande, tutt’al più, se proprio avesse dovuto correre, avrebbe voluto distanze brevissime e comunque con gli ostacoli: i 110. Malcolm Arnold, che pure di quest’ultima specialità sarebbe stato un “mago”, tra l’altro creando, una volta tornato nel Regno Unito, Colin Jackson, riuscì a convincerlo che era più adatto per i 400, sempre con ostacoli. John Akii-Bua si affidò a Mzungu: i ragazzi chiamavano così Malcolm Arnold, sembrando troppo complicato farlo con nome e cognome. In lingua kishwaili Mzungu sta per Uomo Bianco. Ai Giochi del Commonwealth del ’70, a Edimburgo si piazza quarto, durante un incontro internazionale (a quei tempi se ne facevano: il calendario non era tutto un palinsesto televisivo di meeting) contro gli Stati Uniti vinse correndo in 49 secondi netti. Era un ottimo tempo: il record del mondo era ancora fermo al 48.1 che David Hemery aveva corso nell’aria rarefatta del Messico nel 1968.
David Hemery, un tipo very british nel fisico e negli atteggiamenti, era l’indiscusso favorito a Monaco. La notte della vigilia della finale fu una presenza continua nei sogni agitati di Akii-Bua: gli compariva sul più bello, e vinceva sempre lui, nonostante nel dormiveglia l’ugandese sorseggiasse di tanto in tanto, direttamente dalla bottiglia, lo champagne che Mzungu gli aveva dato per agevolargli il sonno. Le bollicine non facevano effetto.
E poi c’era quel chiodo della corsia numero uno, la peggiore, che era toccata ad Akii-Bua: solo “dopo” l’avrebbe ritenuta un vantaggio, “perché così potevo vedere tutto quello che facevano gli altri”. Lui sapeva quello che aveva fatto lui per arrivare fin lì, e lo aveva scritto poi su quei fogli protocollo: l’allenamento era stato massacrante, ripetute di 1500 metri, con cinque ostacoli ad ogni giro di pista, ostacoli alti 42 pollici (1,0668 metri) anziché i regolamentari 36 (0,9144), quattro volte al giorno, tutti i giorni, indossando un giubbotto zavorrato con pesi per 12 chili. Il tutto sulle Montagne della Luna, come è chiamata la catena tra l’Uganda e il Congo dove svetta una Cima Margherita, il nome della prima regina d’Italia dato al luogo da chi lo conquistò per primo, il duca degli Abruzzi, un Savoia. Un programma da consumare muscoli e scarpe. Queste ultime, che poi Akii-Bua indossò in gara, erano vecchie di due anni e s’era perso un chiodo. Provava anche i 400 metri precisi e con gli ostacoli giusti: una mattina Arnold lo cronometrò in 48.2, il mondiale di Hemery, ma non lo disse a nessuno.
Ai blocchi di partenza, unico nero in gara, Akii-Bua guardava gli altri, mentre si scaldava ballettando; quelli no, quelli sembrava che guardassero l’infinito, e forse sembrava loro che il primo ostacolo fosse l’Everest. Akii-Bua viveva con leggerezza il momento; ripassava nella mente le indicazioni di Arnold: dall’ostacolo uno al 5 fai 13 passi, dal 5 al 9 ne fai 14, e poi 15; ricordati l’ostacolo numero 5, lì devi cambiare gamba d’attacco. Le ultime parole di Arnold erano state proprio “ricordati il numero cinque”. Gli pareva di sentirle ancora.
Lo sparo, il via, la corsa, la vittoria. Akii-Bua esplose di gioia. Specie quando sentì il boato dello stadio, guardò il tabellone: 47.83, record del mondo. Era il primo africano a vincere una corsa olimpica sotto gli 800 metri, era il primo uomo, tutti compresi, a correre i 400 ostacoli sotto i 48 secondi. Il balletto in partenza diventò ballo e poi salti di gioia. Qualcuno più fiducioso di altri, forse lo stesso ambasciatore d’Uganda in Germania, gli passò una bandiera della giovane nazione, uguale a quella che Akii-Bua aveva sventolato da orgoglioso alfiere alla sfilata d’apertura. Ne fece un mantello da re, e ripartì per un nuovo giro di pista, saltando gli ostacoli come aveva fatto nel giro precedente, quello d’oro. Akii-Bua inventò il giro d’onore ai Giochi Olimpici.
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