Illustrazione di Roberto Melis
5 minuti per la letturaIl ragazzo che perse due denti nel luglio 2004 mentre guardava la partita di baseball dei Red Sox, abitava a Sudbury, nel Massachusetts, in una fattoria che negli Anni Venti era stata di Babe Ruth: la palla, colpita da Manny Ramirez, gli arrivò d’improvviso sul volto e il ragazzo non fece in tempo neppure a pararla con la mano. Con i denti del giovane, la palla si portò via anche la “Maledizione del Bambino”.
È questa una delle più conosciute superstizioni negative dello sport: è durata 86 anni, anche se fu chiamata così soltanto nei suoi ultimi quasi venti, da quando un giornalista del New York Times, George Vecsey, dopo una delle tante, troppe, rocambolesche sconfitte della squadra di Boston fece una connessione fra l’ultima vittoria dei “Calzini Rossi”, avvenuta nel 1918, e la sequela di incredibili vicende sportive che li aveva tenuti fin lì lontani dall’anello dei campioni, i vincitori della serie finale di 7 incontri. A quattro successi ci si ferma.
“The Curse of the Bambino” scrisse George Vecsey: piacque e diventò popolare e perfino il titolo di un libro, pure se sempre sotto l’insegna di ogni superstizione, “non è vero, ma ci credo”, come recita una commedia di Peppino De Filippo. Il Bambino si chiamava George Herman Ruth di Baltimora. Era il gioiello dei Red Sox all’inizio del Novecento, quando la squadra, fra il 1903, anno d’inizio della competizione, e il 1918, era stata campione per cinque volte, le ultime tre con Ruth sul diamante, per ragioni di età: era nato nel 1895.
Lo chiamavano “il Bambino” perché era stato precoce in tutto: a 7 anni già fumava o masticava tabacco, mangiava di tutto tendendo a quella che oggi verrebbe etichettata come obesità, e stava sempre per strada. Poi incontrò Padre Mathias, un sacerdote che lo introdusse al baseball e tutto cambiò. Divenne uno degli sportivi più amati d’America, i suoi cimeli sono ancora nella top ten dei memorabilia statunitensi quanto a valore commerciale, che è proporzionale a quello affettivo: una sua figurina è stata pagata oltre mezzo milione di dollari, una sua mazza quasi un milione e mezzo.
Lui, nel 1920, fu pagato dagli Yankees di New York 125 mila dollari. Il venditore, che era un produttore teatrale, Harry Frazee, ottenne anche fidejussioni per 300 mila dollari, che gli consentirono di mettere in scena il musical “No, no, Nanette” al quale Frazee teneva molto. Nel copione era anche la canzone “Tea for two”, che cantarono più tardi anche Frank Sinatra e Nat King Cole: “Picture you upon my knee/ just tea for two/ and two for tea/ just me for you/ and you for me, alone” (immaginati sulle mie ginocchia, solo thé per due e due per il thé, solo io per te e tu per me, soltanto).
È probabile che sia solo una delle fake news che Babe, che non voleva andare a New York anche perché la moglie Helen non era dell’idea (e i due divorziarono dopo il passaggio di Ruth nella Grande Mela), abbia detto a Frazee: “Senza di me, non vincerete più un titolo”, che sarebbe la frase all’origine della maledizione.
È statisticamente provato, però, che i Red Sox non vinsero più fino al 2004, quando il ragazzo di Sudbury perse i due denti, e per gli Yankees cominciò un epoca d’oro. Perché se i Red Sox arrivarono ultimi per 13 stagioni consecutive (Frazee aveva venduto, oltre Babe, altri 10 giocatori e perfino il manager Ed Barrow), quelli di New York furono primi 26 volte e dovettero anche, per Babe, costruire un nuovo stadio giacché quello dove giocavano prima era diventato troppo piccolo per accontentare tutte le richieste.
L’ambiente sportivo di Boston, fatto il conto statistico, cominciò a crederci: “Se Babe fosse vivo gli tirerei una palla nel culo” disse nel 2001, al termine dell’ennesima serie negativa, uno dei più grandi giocatori, Pedro Martinez: poco elegante ma ampiamente descrittivo dello stato d’animo. Poi venne il 2004.
I Red Sox arrivarono a giocare la serie finale dopo quella pallata di Manny Ramirez e dopo aver sconfitto gli “odiati” Yankees. Erano sotto tre a zero. Ma al Fenway Park, lo stadio di Boston dove nel settore 42 fila 31 posto 21 è una sedia rossa tra tutte le altre nere per indicare il fuori campo di 153 metri che fece Ted Williams nel 1948, la gente ci credeva. Arrivarono tutti in tribuna con cartelli su cui era scritto “We Believe”, ci crediamo. Avevano passato in molti il Longfellow Bridge, il ponte che finiva su di una curva pericolosa tanto che sulle arcate era il cartello segnaletico “Reverse Curve”: era stato sostituito nella notte con un improvvisato “Reverse the Curse”. E la rovesciarono. I Red Sox vinsero e iniziarono una rimonta che non s‘era mai vista (né s’è vista dopo), chiudendo la serie in vantaggio per 4 a 3.
Il Governatore Mitt Romney, che poi fu candidato alla Casa Bianca, presenziò a una cerimonia che scardinò il falso segnale stradale, il ministro del Tesoro fece plastificare la prima pagina del New York Times che raccontava il fatto e la pose sulla tomba di sua madre, accanita tifosa dei Red Sox che, nella serie finale, sconfissero i St Louis Cardinals per 4 a 0 alle 23.30 del 27 ottobre 2004. Finì la maledizione: gli innamorati di Boston non scherzarono più dichiarando il proprio amore “finché morte non ci separi o finché i Red Sox non vincano un titolo”. Dicono che nel cielo di Boston quella notte ci fosse la luna rossa e qualcuno giura di aver visto lassù il volto di Babe Ruth: sorrideva. Curt Schilling, uno dei campioni, uscì dal diamante con un calzino insanguinato: era appena stato operato a un tendine, ma non voleva rinunciare all’inning che chiuse la partita. Anche quella con il Bambino.
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