Simone Biles
3 minuti per la letturaL’accettazione della propria sconfitta sportiva è, questa sì, un’impresa che mette a dura prova la salute mentale dal secondo classificato in poi. Ma quella che è addirittura più difficile da compiere è l’accettazione della altrui vittoria. Da Roma abbiamo sparso per l’Italia tutta un verbo che assai bene rende l’idea: “rosicare”.
MA QUALE VERY BRITISH
Oltre Manica e oltre Atlantico, inglesi e prole americana (ma ci pensate? Trump, per dirne uno, sarebbe prole della Regina Elisabetta: misteri della genetica) non hanno una parola per tradurlo: to gnaw è, letteralmente, il più elegante e da coscia di pollo (perdonate, vegani!) “rosicchiare”. Ma rosicare è un sentiment. E gli inglesi e prole lo praticano molto in questi ultimi tempi sportivi, nostri e loro, pure se per definirlo hanno giri di parole, fiumi di parole, più che se fossero i mitici Jalisse.
Ricordate il principino sorridente al gol dell’Inghilterra, il piccolo lord dimentico della flemma britannica? Era la stessa anima innocente che poi, frignante e rabbuiato, prese la via di Palazzo insieme al padre duca e alla madre duchessa quando Gigio parò i rigori, tutti dimentichi di ogni principio di fairplay e anche di humour.
Ora, invece, con l’ombrello e la bombetta, la cabina telefonica rossa e il colbacco d’orso delle guardie di Buckingham Palace, è il “rosicare” che caratterizza il very british e dunque anche l’essere dei loro buoni vicini lontani, i discendenti a stelle e strisce.
Ed ecco che i loro “giornaloni” si gettano su Jacobs. Ma come avrà fatto a migliorare così tanto e così d’improvviso? Buttano il sasso e nascondono la mano, come un qualsiasi leone da tastiera. Per carità, dicono, non ce l’abbiamo con l’italiano, però sappiamo bene come vanno le cose nello sport di vertice.
Come vanno? Beh, vanno, per esempio, che per lunghi anni ci siamo tutti emozionati e commossi quando Lance Armstrong, che aveva vinto il cancro, vinceva anche sette volte il Tour de France grazie, confessò poi, a un raffinato programma di doping. Lance Armstrong era americano.
Vanno, per esempio ancora, che la meravigliosa finale di Seul ’88 è stata definita, a bocce e atleti fermi, «la corsa più sporca» e ne erano interpreti, oltre a un canadese, Ben Johnson, un americano, Carl Lewis, e un inglese, Lindford Christie. Perciò, in primis, da che pulpito.
ALLA RICERCA DELLO STILE PERDUTO
Ma questo non conta. Marcell nostro ha vinto e ha sconfitto quelli che c’erano. Non c’era, per esempio, lo statunitense Coleman, il presunto erede di Bolt. È squalificato perché per tre volte ha dato informazioni devianti agli ispettori dell’antidoping che dovevano effettuare su di lui controlli a sorpresa. Non si è fatto trovare in casa, il che, nel codice sportivo, la terza volta equivale a una confessione, come i famosi tre indizi che fanno prova. C’era l’inglese Hughes, il quale ha avuto talmente fretta di correre da partire dai blocchi non solo prima dello sparo, ma anche prima che lo starter “caricasse” la pistola.
Poveri cari angloamericani: non avete perduto solo la finale europea di Wembley né la più prestigiosa delle gare alle Olimpiadi. Avete perduto lo stile sportivo. Ci manca tanto Gigi Proietti che vi avrebbe detto, frase cult del film cult “Febbre da cavallo”: “Nun te la pijà così”. Il resto non è silenzio, come in “Amleto”: il resto è censura.
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