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Illustrazione di Roberto Melis

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Donald James Thompson, che tutti chiamavano “Don” e che per i suoi fan era “Il Topolino”, come lo avevano ribattezzato gli spettatori milanesi una volta che era andato a gareggiare in Lombardia (era alto 1,68 e pesava 55 chili, nel suo Paese, l’Inghilterra, lo tradussero nel più simpatico “Mickey Mouse”, il topolino per antonomasia) il 24 novembre 1956 promise a se stesso che non gli sarebbe capitato mai più. Lo giurò sulla testa della mamma e della Regina, che Dio la salvi.

Era su di una strada di Melbourne, olimpica in quei giorni d’inizio estate australe, caldo e umidità in miscela insopportabile per chi doveva completare la lunga marcia verso l’oro, la specialità dei 50 chilometri da percorrere con “quel modo di correre per andare più piano”, come la definiva il commissario tecnico più saggio e vincente d’Italia, Alfredo Martini, quello che in 22 anni fece trionfare sei volte al mondiale i ciclisti azzurri (Moser, Saronni, Argentin, Fondriest e due volte Bugno) più sette argenti e sette bronzi.

Don vedeva già la mastodontica sagoma del Melbourne Cricket Ground, lo stadio da 120 mila spettatori che gli australiani chiamavano con affetto semplicemente “The G”, nomignolo al quale la maliziosa pop star Madonna, quanto tenne lì un concerto, aggiunse la parola “punto”. Era, disse, “il punto G della musica”. Da quello stadio la gara di marcia era partita e lì doveva terminare.

Don era quinto quando lo vide sulla via del ritorno. Ma non ce la faceva più, completamente disidratato dalla fatica e dal clima. E si fermò, ritirato mentre sbarellava, prometteva e giurava. Andò a vincere Norman Read, inglese di nascita, che aveva cercato di prendergli il posto ma era stato respinto dal Comitato olimpico britannico e allora di era rivolto a quello neozelandese, giacché era andato a vivere da quella parte del mondo: gli avevano detto “no grazie; preferiamo un nativo dei nostri luoghi”.

Norman non s’era dato per vinto, ma anzi per vincitore: aveva disputato il campionato australiano sullo stesso percorso olimpico ed era arrivato primo, con ciò convincendo il Comitato olimpico “kiwi” ad abbandonare la sovranista teoria del “New Zealand First” ed a dargli una maglia. Il voltare gabbana fu premiato dall’oro.

Per Thompson fu quella la sola gara di marcia che non portò a termine. Le altre le ha ultimate tutte e spesso per primo, come la Londra-Brighton, 52 miglia e mezzo, cioè 84,5 chilometri approssimativamente, che, a cavallo tra gli Anni Cinquanta e Sessanta, fu sua otto volte di seguito. Nel 1957 la corse in 7 ore 35:12, record perpetuo giacché fino al 2001, anno in cui fu disputata per l’ultima volta, nessuno marciò mai più velocemente.

L’estate del 1960 Thompson la passò con il chiodo fisso del 7 settembre, il giorno della “marcia su Roma”, sportiva s’intende, quella lunga 50 chilometri, dallo Stadio Olimpico e via per il lungotevere fino alla strada per il mare, ad Acilia e ritorno. Che tempo farà a Roma? Che caldo? Quanta umidità? Sentiva brividi da Melbourne. Cercò di abituarsi all’estremo. Così usciva la mattina dalla casa della mamma, a Crandon, zona Londra, prima che uscisse quel po’ di sole che spunta nelle estati britanniche.

E, tornato a casa, si infilava addosso una tuta ancora più pesante, la rinforzava con una vecchia giacca a vento della mamma, si chiudeva in bagno e tappava tutte le fessure di porta e finestra con asciugamani, apriva la doccia a bollore, attaccava la spina di una stufa elettrica, accendeva la stufa a carbone che s’era fatto prestare da un amico, aspettava il vapore e il calore insopportabili e poi, tra la vasca e water, erano flessioni ed esercizi, finché non sentiva girargli la testa vuota. Se resisto a questo clima, pensava, resisterò anche a Roma. A fargliela girare, scoprì poi, non erano il calore e l’umidità ma le esalazioni di monossido di carbonio.

Per riuscire nell’impresa si abbigliò anche in maniera insolita il giorno della gara. Scarpe di pelle e imbottite, e al cap la mamma aveva cucito un fazzoletto stesso sulla parte posteriore, che gli proteggesse il collo: sembrava il legionario di Edith Piaf.

Funzionò: Roma era più sopportabile del bagno della casa di Crandon; si mise subito in testa al gruppo ed accelerò man mano; dall’Olimpico era uscito tra i primi, ci tornò da primo.

Continuò a corre e marciare fino a tarda età: una volta si ruppe una clavicola cadendo in corsa; arrivò fino al traguardo e poi si fece curare. Mandato a casa in convalescenza, voleva continuare ad allenarsi, alzandosi alle 4 di mattina. Fai pure, disse Maggie sua moglie, ma scordati che io mi alzi a quell’ora per allacciarti le scarpe. La trattativa coniugale gli fece avere il permesso di Maggie di dormire con le scarpe, purché le tenesse fuori dal piumone.

A settant’anni ancora gareggiava. Quando fu colto da un primo aneurisma, in ospedale, pure sedato, alle quattro di ogni mattina s’agitava nel letto. I medici non si spiegavano perché; Maggie sorrise: “Forse vuole andare ad allenarsi”.


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