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Professori che usano click e tastiere per silenziare i Lucignoli di una classe?

Che al posto di metterli in punizione o spedirli dritti dritti dal preside per un provvedimento di richiamo li “sopprimono” come avatar su un display castigandoli col peggiore dei patiboli in circolazione: la bolla virtuale in cui boccheggiano come pesciolini senza che nessuno possa interagire con loro? O che stabiliscono circuiti più aspri di verifica per aggirare la possibilità di attingere passivamente da quell’infinito oceano di dati stoccati chiamato Internet?

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Sembravano orizzonti futuribili e distopici, inimmaginabili all’epoca di gessetti e marachelle pinocchiesche, e invece sono diventati la panacea elettronica di una quarantena anti-Covid che non rinuncia allo svolgimento di programmi e al raggiungimento di precisi obiettivi didattici. Antonio D’Amico, 49 anni, insegnante di Lettere da 16 anni all’Istituto tecnico “Pascal” di Foggia, chitarrista e rocker affermato in zona su repertorio che va da Sting ai Depeche Mode, look baudelairiano che tanto piace ai suoi studenti e spezza più di un cuore, è l’avamposto migliore per capire come il classico duello fra adolescenti, non sempre irreprensibili nella condotta, e cattedratici, sopravviva pur nelle freddolose acque delle lezioni on line e dell’inquadratura come sostituto delle vecchie bacchette.

«Con un pizzico di ironia potremmo dire che, usando computer e collegamenti a distanza, come in una stanza dei bottoni, abbiamo più dominio, esercitiamo un maggiore controllo – dice con un simpatico bagliore negli occhi di cinismo e malinconia Antonio -; sembra quasi che riusciamo a sfiorare una scuola ideale, seppur dai vaghi contorni orwelliani. Perché i ragazzi di oggi non hanno alcun timore reverenziale: in una sessione reale di lezione ci sono sempre i disturbatori, e se si riescono a placare per un po’, poi ci sono altri che riprendono lo stesso tipo di interruzioni. È come se dovessimo sempre affidarci alla loro clemenza. Ma ecco che arrivano le piattaforme, il prof che guarda tutti su piccole icone, e finalmente il tasto che assomiglia al lancio di un missile nucleare: l’opzione mute o unmute all, cioè la possibilità di togliere la voce a tutti o, in maniera selettiva, solo ad alcuni di loro. La prima vera mossa di autodifesa è questa – continua la sua disamina algoritmica il prof dauno -: i ragazzi subiscono molto la censura della loro voce, il non poter far casino sul display influenzando l’impegno e lo sforzo di concentrazione di altri, hanno paura che gli si tolga non la libertà ma il libertinaggio, oserei dire, di decidere come vogliono e quando vogliono. E quindi, farli tacere all’unisono con un touch furtivo, o meglio, incoraggiare l’interazione solo di quei ragazzi che usano l’audio non per prendersi beffe degli altri ma per assimilare meglio dei contenuti e chiedere chiarimenti, è davvero una magia utilissima. A quel punto è come se si creasse una elite di rispettosi nelle cui fila, se vuoi rientrarci, devi guadagnarti la facoltà della parola, altrimenti, zack, vieni ammutolito. Paradossalmente – conclude -, visto che in una classe vera singolo e collettività si intrecciano, dovremmo augurarci un bell’isolamento nel plexiglass di ciascuno, a fin di bene ovviamente, e senza derive dettate dalla frustrazione, così la lezione filerebbe liscia, e tutto verrebbe affidato alla coscienza sana dell’educatore».

Impostato così, il vademecum Grande Fratello dello spy-teacher versione peste del Duemila depone a favore di una positiva frammentazione dell’integrità umana del discente, perché solo così, ridotto a uno spezzatino di meccaniche e applicazioni, circuiti e neuroni, affacci volontari e assenze pilotate, se ne prende il meglio e, soprattutto, lo si reinstrada verso il meglio della conoscenza, oltre le sirene da youtuber molesto. Viene in mente, profetico e lapidario, il filosofo Luciano Floridi quando, in suo ultimo saggio intitolato “La quarta rivoluzione”, si esprime su quel nuovo impasto chimerico rappresentato dall’unione di vita e new media chiamato ICT, ovvero tecnologie di comunicazione e informazione: esse “creano e forgiano la nostra realtà fisica e intellettuale – ammonisce il docente di Oxford -, modificano la nostra autocomprensione, cambiano il modo in cui ci relazioniamo agli altri e con noi stessi, aggiornano la nostra interpretazione del mondo, e fanno tutto ciò in maniera pervasiva, profonda e incessante”.

Sono, insomma, la filogenesi del nostro nuovo sentire, una rete incorporea di dispositivi che ingloba pur tuttavia i nostri linguaggi, i nostri piani di esistenza, le nostre disposizioni d’animo: byte e pixel che possono addirittura sostituirsi alla libertà del giudizio, ai tempi fisiologici di reazione, una Matrix che diventa nutrice al posto della Madre, figurarsi dei professori di una scuola… E allora, se tutto non è più legato alla saggezza della trasmissione dei valori e delle nozioni, e all’acquiescenza umile di chi deve imparare, ma a un gioco di rimpiattini sinaptici, a comandi che aprono o otturano talune valvole del dialogo, a una spirale di intenzioni e interferenze, come non operare a fisarmonica anche sulla chance detta sharing screen?

«Grazie a questa funzione– segnala il prof D’Amico – si può condividere una certa info sullo schermo di tutti. Ovviamente, se si lavora insieme è una funzione utile perché tutti vedono la stessa cosa, altrimenti all’improvviso, al posto delle facce dei ragazzi, e anche della mia, ti appare il trapper alla moda che canta un brano, o qualche video porno, caricato dal solito distrattone, oppure, con gli scarabocchi digitali che sono nel menù della Rete interna, ti ritrovi un testo che stai spiegando alla classe pieno di linee e disegni senza senso. Devi essere veloce, a quel punto, nel disabilitare questa specie di plotter, come se stessi dentro un videogioco, e tu fossi packman che sfugge ai fantasmini…».

Il terzo antidoto ai piccoli cyber-terroristi dell’aula accanto è il far cessare all’istante un’altra ferale opportunità a prova di mouse: il rename, il rinominare uno dei partecipanti al gruppo della lezione, conferendogli una nuova identità. «Essendoci una chat di discussione e condivisione a fianco della schermata generale, quante volte ho trovato un altro Antonio D’Amico che diceva in una grammatica che ovviamente non mi appartiene “vi metto una nota a tutti”, oppure mia moglie o mio figlio… Un fake, né più né meno, gestito da uno dei ragazzi che si era tolto momentaneamente dal video e giocava a fare me. Un altro dei tanti bluff che dobbiamo fronteggiare in una dimensione, quella dell’on line, nella quale noi da ragazzi non ci siamo sperimentati, e che dobbiamo metabolizzare con elasticità per padroneggiare queste nuove situazioni».

Ma la vera quarta contromossa è metodologica. Il web è un catino di risorse immense, ma che tranquillamente muta in una discarica di roba da scopiazzare, in una centrifuga dove sminuzzare ogni spinta evolutiva, in una giostra dove banalizzare ogni pezzo del pensiero e della classicità con la distrazione eletta ad aratro di demenza. «Dobbiamo batterci per un sapere autocostruito, per una vera didattica moderna – indica l’eroico prof Antonio, misurato e scapigliato in un perfetto mix -. Bisogna dare input di ricerca complessi, non traguardi troppo facili da raggiungere con una semplicissima divagazione su Google. Solo questo trasforma i ragazzi in artisti di se stessi, in veri mosaicisti della loro stessa crescita morale e intellettuale».


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