Barbara Lezzi
3 minuti per la letturaLa parola magica che i Cinquestelle pugliesi in questi giorni di vero dramma per la realtà industriale di Taranto e in realtà dell’intero Paese, stanno cavalcando e sbandierando è: riconversione. È così che l’ex ministro “fantasma” del Sud, Barbara Lezzi, sta tentando di giustificare la tragedia che la sua vendetta personale verso Luigi Di Maio (reo di non averla riconfermata nella compagine di governo) ha provocato con quello scellerato emendamento al decreto imprese che ha soppresso la norma sullo scudo penale.
Nemmeno voglio commentare il comportamento di chi a parole dice di lavorare per il bene della comunità e poi di fatto, con le sue azioni e i suoi “ricatti” (al Senato la Lezzi e il collega Giunluigi Paragone sono riusciti a convincere una pattuglia di altri 15 senatori a sostenere il loro emendamento, un numero sufficiente a far cadere il governo che a Palazzo Madama ha numeri risicati) pensa solo al proprio interesse. Barbara Lezzi, per chi ancora non lo sapesse, si vuole candidare a governare la regione Puglia. Vorrei invece soffermarmi sulla riconversione.
Quale? In cosa? Finora sono uscite fuori solo proposte senza alcun senso logico. Ricordiamo prima un piccolo dettaglio: all’ex Ilva a Taranto lavorano 8.200 persone direttamente, altri 1.660 operai sono rimasti in carico ai commissari straordinari che dovrebbero utilizzarli per le bonifiche ambientali, ma li hanno messi in cassa integrazione a zero ore. E poi c’è l’indotto, almeno altre seimila persone. Oltre quindicimila famiglie che vivono lavorando presso o per il siderurgico. E quindi i Cinquestelle che cosa propongono per continuare a far guadagnare uno stipendio a quindicimila persone?
Gli allevamenti di cozze, oppure il parco archeologico industriale con le ciminiere da utilizzare per chi ama fare le scalate. Follie pure, è evidente. C’è chi si spinge su qualcosa di più concreto e pensa a riconvertire l’area in un grande centro universitario e di ricerca e innovazione: decisamente più suggestivo. Ma anche in questo caso la domanda base è: darà lavoro a quindicimila persone? Siamo a Taranto, ragazzi. Non è un particolare irrilevante. Non c’è la folla di aziende in zona pronte ad accaparrarsi gli operai ultraqualificati dell’acciaieria. E già questo dovrebbe far capire l’insensatezza di alcune decisioni.
Lo scudo penale era solo un alibi? Non lo sapremo mai, perché intanto glielo abbiamo tolto e loro – i miliardari indiani che stanno a capo del colosso ArcelorMittal e che vendono e comprano acciaierie come noi cambiamo scarpe – vista la crisi in atto in tutta Europa (overcapacity, ovvero superproduzione) hanno pensato bene di cogliere la palla al balzo e salutare Taranto (dove perdono la bellezza di due milioni di euro al giorno) e l’Italia tutta. Anche i comitati ambientalisti e le famiglie che da anni chiedono il risanamento ambientale, ci perdono in questa brutta storia: ArcelorMittal si era impegnata a investire oltre un miliardo per il piano ambientale.
Adesso salterà anche quello. Ora forse inizierà la «battaglia legale del secolo», come ha detto il premier Conte. Intanto i tarantini è meglio che si rassegnino: nel loro futuro c’è l’emigrazione, oppure il reddito di cittadinanza. E l’Italia intera, finora secondo paese manufatturiero d’Europa, senza una produzione adeguata di acciaio è destinata a scendere parecchio nella classifica. Grazie Lezzi.
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