Il procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri
5 minuti per la letturaREGGIO CALABRIA – Il “41 bis”, il regime carcerario duro previsto per i boss, resta uno strumento imprescindibile nella lotta al crimine organizzato. Almeno questo è il punto di vista, a trent’anni dall’estensione della norma che regola il regime anche per i detenuti per reati di mafia, del procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, alla guida di una Dda che, proprio nelle settimane scorse, ha condotto un’operazione dalla quale è emerso che il vertice lombardo della cosca Bellocco di Rosarno dirigeva gli “affari” dal carcere, ovviamente non quello speciale, essendo un detenuto comune.
Dalle proiezioni nelle province di Brescia e Bergamo all’asse della droga con il clan Spada di Ostia alla cappa asfissiante sull’economia in Calabria, il nuovo capo della cosca, che da Rosarno muoveva alla “colonizzazione” della Lombardia, gestiva tutto dal penitenziario, dove “da remoto”, con l’utilizzo di telefonini e perfino di un profilo Facebook, interveniva a summit e veicolava direttive ai sodali. Se fosse stato sottoposto alle restrizioni di cui al “41 bis”, tutto ciò non sarebbe stato possibile.
Procuratore Bombardieri, a 30 anni dal “41 bis” si impone una riflessione su una norma sempre al centro di accesi dibattiti, il cui scopo dichiarato è comunque quello di impedire ai boss detenuti di comunicare con l’esterno. Al di là delle polemiche, il 41-bis resta una norma fondamentale per contrastare in maniera efficace le mafie?
«Sicuramente la sottoposizione al regime detentivo speciale ex art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario degli appartenenti delle organizzazioni criminali di stampo mafioso per i quali vi siano elementi in ordine alla “sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale” rimane una misura di grande efficacia per evitare che tali soggetti continuino ad avere rapporti con l’esterno ed in particolare con le organizzazioni criminali di provenienza. A tale proposito basterebbero due dati di esperienza giudiziaria concreta a confortare questa affermazione. Intanto, in un recente passato, si è verificato che uno ‘ndranghetista iniziando la sua collaborazione ha dichiarato che la sua “famiglia” lo aveva designato ad esserne il “rappresentante” in quanto i vertici erano reclusi al regime ex art. 41 bis O.P. e, pertanto, avevano grosse difficoltà di comunicazione con l’esterno e, inoltre, partecipavano alle udienze dei propri processi in videocollegamento, per cui lui, non sottoposto a quel regime detentivo speciale seppure detenuto, aveva maggiore facilità a veicolare indicazioni ed informazioni all’esterno, ed inoltre partecipando alle udienze in presenza aveva la possibilità di incontrare gli altri detenuti di altre organizzazioni criminali, anche in occasione delle udienze. Ancora, una recente indagine della Dda di Reggio Calabria ha dimostrato come anche dall’interno del carcere, ove non sottoposti al regime detentivo special ex art. 41 bis O.P., è possibile dirigere la propria organizzazione criminale: in particolare è emersa la diretta partecipazione del soggetto, seppure ristretto ed a mezzo di apparecchi telefonici illegalmente introdotti, ai summit di ‘ndrangheta della propria cosca, la convocazione da parte sua di sodali cui fornire indicazioni operative e di vittime da intimorire ai fini dell’accoglimento delle proprie illecite pretese. È evidente che solo la sottoposizione ad un regime restrittivo quale quello detentivo speciale di cui all’art. 41 bis O.P. può scongiurare simili gravissime situazioni».
C’è chi ritiene che alcune restrizioni di cui al “41 bis” presentino dei profili di incostituzionalità…
«In più occasioni la Corte Costituzionale ha affermato la legittimità di tale previsione normativa ove vengano garantite determinate modalità di svolgimento del regime medesimo, con il pieno rispetto dei diritti fondamentali e della dignità personale del detenuto»
C’è, invece, chi ritiene che la norma non configuri violazioni dello Stato di diritto poiché al condannato viene comunque offerta la possibilità di fuoriuscire dal regime carcerario duro collaborando con la giustizia…
«Anche questo è un problema complesso. Si è contestata tale previsione di “collaborazione con la giustizia” perchè ritenuta “ricattatoria”. In verità non è un ricatto dello Stato nel senso della affermazione: tu collabori con la giustizia ed io ti garantisco determinati benefici. La realtà è che da determinate organizzazioni criminali, quali Cosa Nostra e la ‘Ndrangheta, non è possibile uscire se non con la morte o con la totale inaffidabilità che consegue evidentemente alla “collaborazione” con lo Stato; certamente non se ne viene fuori affermando la cosiddetta “dissociazione”, che pure ha costituto un tentativo, per fortuna andato male, delle organizzazioni criminali per ottenere benefici rimanendo vincolati alle organizzazioni criminali di provenienza. Solo se non si conoscono a fondo, culturalmente e per esperienza giudiziaria, tali organizzazioni criminali si può pensare che sia possibile recedere dalle stesse con una libera espressione di volontà. La reale collaborazione di giustizia costituisce, pertanto, una espressione incontestabile del venire meno del rapporto con la propria organizzazione criminale di provenienza e, nello stesso tempo, garantisce dal pericolo di una possibile ripresa di tali contatti criminali: chi si è dimostrato inaffidabile una volta non godrà mai più della fiducia della sua, o di altre, associazioni di criminalità organizzata di stampo mafioso».
Il consigliere del Csm Di Matteo ha di recente dichiarato che un cedimento dello Stato sul fronte del 41 bis sarebbe un errore e che le strategie mafiose più raffinate mirano da sempre ad un affievolimento del carcere duro. Condivide questa posizione?
«Condivido i timori espressi, in ragione della sua lunga esperienza professionale, dal consigliere Di Matteo e non solo da lui. Molti altri sono stati i colleghi che si sono per anni occupati di queste organizzazioni criminali ed hanno espresso le medesime preoccupazioni. Importante è garantire la dignità della persona ed i suoi diritti fondamentali anche ove sottoposta a questo regime detentivo speciale, così come peraltro riconosciuto in più occasioni dalla Corte Costituzionale».
Contro il carcere duro era diretta anche la strategia stragista, nell’ambito della quale fu coinvolta anche la ‘ndrangheta, stando anche a quanto emerso da un processo istruito dalla Dda da lei diretta…
«Naturalmente non parlo di singoli procedimenti o processi ma della esperienza giudiziaria maturata presso gli Uffici in cui ho lavorato e che di ‘Ndrangheta si sono occupati. È, peraltro, una emergenza di processi già definiti con sentenze passate in giudicato, ad esempio, in Sicilia che tra le preoccupazioni delle organizzazioni criminali di stampo mafioso c’è sempre stata quella del cosiddetto “carcere duro”: appunto la sottoposizione al regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis O.P., la cui abolizione o mitigazione è stata da sempre considerata un obiettivo di ogni strategia criminale di queste organizzazioni mafiose».
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