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I ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi

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L’informativa dei ministri, tra orari, competenze e contraddizioni ha prodotto ancora più caos e confusione sul caso Almasri. Servirebbe che il Tribunale dei ministri facesse chiarezza


Tu chiamale, se vuoi, contraddizioni. Oppure bugie, omissioni, autogol. Il risultato è che la doppia informativa dei ministri Nordio e Piantedosi sul caso Almasri ha prodotto ancora più confusione e caos nella ricostruzione del caso. Tanto che, a questo punto, sembra necessario che sia veramente il Tribunale dei ministri a fare chiarezza. Il governo ha scelto il braccio di ferro contro la forza dei fatti e del diritto e ha continuato a piegare gli avvenimenti di queste due settimane nella direzione già vista: usare il dossier Almasri contro la magistratura. L’ennesima sfida, dunque. Ma nelle sfide a volte ci si fa male.

Ecco di seguito le contraddizioni – che è un sostantivo e non un aggettivo – che hanno segnato la ricostruzione dei due ministri con parecchie “bugie” da parte del ministro della Giustizia e qualche omissione da parte del titolare del Viminale. E se alla fine Piantedosi galleggia nell’imbarazzo di una situazione che avrebbe tanto volentieri chiuso prima ancora di iniziarla, Nordio invece ci finisce dentro mani e piedi. Sul bloc notes restano otto punti con circoletto rosso.

LA LEGGE A MODO SUO

«Non faccio il passacarte della Corte penale internazionale» rivendica il ministro Nordio. Ovvero da quando la prima comunicazione dell’avvenuto arresto di Almasri arriva negli uffici del ministero (domenica 19 gennaio ore 12.37, tre ore dopo l’avvenuto arresto a Torino), il ministro non riesce nei fatti a decidere sul caso per ben due giorni. «Il carteggio completo arriva in inglese più allegati in arabo alle 12.40 del 20 gennaio, il 21 a metà giornata il Procuratore della Corte d’appello ha già liberato il generale libico». La legge n° 237/2012 impone che «io dia seguito in via esclusiva alle richieste della Cpi ma anche, se necessario, di concordare la mia azione con altri ministri e organi dello Stato».

Il ministro legge l’articolo 2 della legge ma non l’articolo 4 che recita: «Il ministro della Giustizia dà corso alle richieste formulate dalla Cpi trasmettendole al Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma perché vi dia esecuzione». Nordio invece non interloquisce con la Corte d’appello nonostante i solleciti. Lui o il governo in quelle ore riescono però a fare altro: chiedono alla Cpi di «astenersi dal commentare pubblicamente l’arresto del libico». Cosa che la Corte fa «su richiesta e nel pieno rispetto delle autorità italiane». Il timing di quei giorni, dalla mattina del 19 (arresto) alle 19 e 50 del 21 gennaio quando il Falcon decolla da Torino-Caselle con a bordo Almasri, sono la dimostrazione dell’inerzia del ministro Nordio.

«LA CPI HA SBAGLIATO»

La colpa, nella ricostruzione di Nordio, sarebbe «in una serie di criticità nella richiesta di arresto che avrebbero reso impossibile una mia immediata richiesta alla Corte d’appello». Dunque, il ministro prima dice di non aver ricevuto un carteggio «complesso e non tradotto», però poi dice di aver intravisto a colpo d’occhio e nonostante tutto «numerose criticità» che avrebbero reso «impropria e frettolosa ogni mia decisione». Quali? Una data sbagliata, ovvero i reati contestati al generale (stupri, violenze, omicidi, torture) sono prima indicati a partire dal 2011 e poi dal 2015 fino al 2024.

In supporto alla sua tesi Nordio porta il parere dissenziente di Socorro Flores Liera, una delle giudici della Cpi, poi integrate al mandato di arresto il 24 gennaio. Il punto è che la Cpi chiede l’arresto per crimini contro l’umanità di guerra tra il 2015 e il 2024. Tutto il resto sono solo cavilli che non cambiano in alcun modo la sostanza dell’accusa. Cavilli che, ancora una volta, non dicono e non spiegano l’inerzia di Nordio.

LA MINACCIA ALLE TOGHE

Dopo aver attaccato la Cpi promettendo di «chiedere giustificazione di tali gravi incongruenze», il ministro della Giustizia attacca la magistratura italiana che «mi ha attaccato su questo dossier senza aver letto le carte». Il problema è che sono stati i ministri, la maggioranza e poi la stessa premier ad attaccare la magistratura italiana dicendo che «sono stati loro a liberare il generale libico». Incredibile come anche nell’informativa di ieri Nordio non spieghi la sua inerzia e decida di attaccare la magistratura. «Tutto ciò rende il dialogo molto difficile, e se questo è un modo per rallentare le riforme, sappiate che noi andremo avanti fino in fondo e senza esitazione». Nel pomeriggio al Senato la senatrice-avvocato Giulia Bongiorno non sembrava soddisfatta del tono e dei temi usati dal suo assistito. Matteo Renzi ha attraversato l’emiciclo per darle «solidarietà».

PIANTEDOSI, LE CONTRADDIZIONI

Il ministro dell’Interno ha parlato meno e ha fatto meno errori. Anche lui, però, è caduto in contraddizione due volte e ha omesso due passaggi molto importanti. La prima contraddizione: «Il generale libico non è mai stato un interlocutore del governo e meno che mai sulla gestione dei migranti». Se così fosse, perché il generale aveva nella sua disponibilità la chiave di una camera di un importante albergo di Milano? Chi gliela aveva data e garantita? E perché il volo di Stato per rimpatriare in Libia quel «soggetto pericoloso per la sicurezza nazionale (il generale libico, ndr)?».

La seconda contraddizione, intrecciata alla prima: «Mai stati sotto ricatto del generale e nessuna pressione da parte sua». Se così fosse, perché nelle prime ore dopo la sua liberazione, fonti di governo indicano «l’aumento dei flussi di migranti dalla Libia» e il rischio sequestro per i dipendenti Eni che lavorano in Libia come possibile conseguenza del suo arresto?

QUEL “BUCO” DI SEI ORE

C’è un fatto che il ministro dell’Interno non può e non riesce a giustificare. «La polizia rintraccia Almasri nel suo hotel alle 2.30 del mattino del 19 gennaio e ne procede all’arresto alle 9.30». In quelle sei ore probabilmente si consuma quello che i bene informati definiscono «ennesimo cortocircuito». Ovvero, la polizia giustamente esegue un arresto internazionale (il ministro dell’Interno ringrazia in aula) mentre i servizi segreti cercano di evitarlo per non provocare ciò che è puntualmente successo dopo.

Ma non si può cancellare un arresto quando il target è già sotto controllo della polizia. Piantedosi lascia così, sospese a galleggiare, quelle sei ore. Idem come sopra con il volo di Stato. Il ministro dell’Interno dice di averlo autorizzato «in nome della sicurezza nazionale» ma non dice a che ora. Non può farlo: alle 11.30 del 21 gennaio il Falcon è già a Torino; la decisione della Corte d’appello arriva un paio d’ore dopo; alle 15.50 Nordio sta «valutando il dossier» e il Falcon partirà solo alle 19.50. Più che un’audizione in Parlamento è stato un suicidio del diritto e dell’autorevolezza dello Stato.


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