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La premier GIorgia Meloni mette a guardia del Pnrr Tommaso Foti, un fedelissimo dallo standing incerto, sulla cui adeguatezza al ruolo gli alleati nutrono dubbi. E il Pd avverte: «Fitto non sia il ministro ombra: la Ue non lo accetterebbe». Capogruppo FdI alla Camera sarà Bignami, che anni fa si travestì da gerarca fascista
L’ennesima sfida. Dall’interno del bunker in cui si sente perennemente asserragliata contro tutto e tutti. Contro gli alleati, ancora più che contro le opposizioni, contro chi le sussurrava all’orecchio: «Guarda, Giorgia, che per parlare con Bruxelles serve una persona con un certo standing».
Contro chi, soprattutto in casa, nella maggioranza, le faceva notare: «Sono cambiati due ministri di peso, senza contare i posti di sottogoverno, almeno due, saltati cause inchieste e condanna, se arriva il terzo (Santanchè, ndr) serve una nuova fiducia». O altri ancora – stavolta dalle opposizioni – che l’hanno ammonita: «La premier non penserà mica di darci la notizia del nuovo ministro al posto di Fitto a giuramento giù avvenuto?».
IL BLITZ DI MELONI E IL GIURAMENTO DI FOTI
E invece è andata esattamente così. La promozione di Tommaso Foti da capogruppo a ministro è la risposta più identitaria e anche sprezzante delle forze di maggioranza che Meloni potesse dare. Domenica sera la telefonata della conferma: «Tommaso, stai pronto per il giuramento…».
Il suo nome era in cima alla lista da giorni, sebbene con molti dubbi circa il profilo, se fosse o meno quello più adatto al ruolo di ministro al Pnrr, alla Coesione e ai Rapporti con la Ue. Insomma, il successore di quel concentrato di soldi e potere che sono anche il “fattore X” del sistema Paese Italia che era il ministero di Fitto.
Solite giaculatorie da main stream, ha ragionato la premier. Che ieri mattina a mezzogiorno è salita al Colle al fianco di Foti, che tra l’emozione, la formula di rito recitata con la erre rotonda della Romagna e qualche lacrima trattenuta, ha detto sì al presidente della Repubblica. «Complimenti e buon lavoro» ha detto il capo dello Stato. Che poi, fatti due passi, ci ripensa e aggiunge: «Ha un bell’incarico, sa…». Foti sorride e la premier, con fare tra protettivo e infastidito, s’intromette e dice: «Lo sa, lo sa».
DISILLUSO TAJANI
Viene spento così l’incendio che per una decina di giorni ha mandato la maggioranza sotto due volte in Parlamento e ha incendiato lo scontro tra i due vicepremier. La questione era semplice: dopo i risultati delle elezioni regionali, che hanno visto Forza Italia consolidare il suo “secondo posto” nella coalizione, Tajani aveva pregustato un riconoscimento nel post Fitto.
Anche perché senza Forza Italia e lo scudo del Ppe, a Bruxelles sarebbe stato più difficile ottenere il via libera per la Commissione. Antonio Tajani aveva puntato alla delega ai Rapporti con la Ue, non per sé ma per qualcuno dei suoi. Matteo Salvini, però, ha fatto subito le bizze: «Perché mai dare più potere e peso a Forza Italia? Allora io chiedo il Viminale». Nel frattempo s’impallinavano a vicenda in aula e in commissione.
Figuriamoci, poi, quando è emerso che Meloni aveva in testa di fare uno spezzatino delle deleghe di Fitto e distribuirle a tecnici (come Belloni) e politici (Butti e Terzi di Sant’Agata). Scenario, questo, ancora peggiore per Tajani: Belloni ministro avrebbe fatto ombra al ministro degli Esteri.
Morale: dopo tanto abbaiare, la premier ha fatto di testa sua. E ha scelto forse il più unfit, almeno sulla carta, per dialogare con Bruxelles: un vero uomo di destra, dal Fronte della gioventù al Movimento sociale, Foti, 64 anni, piacentino, è chiamato anche “il leone” dove la “leonessa” sarebbe Meloni.
FOTI, FEDELISSIMO DI MELONI MA DALLO STANDING INCERTO
Al di là delle metafore ferine, Foti ha un modo di fare quasi antico, gentile, con la erre rotonda, al netto di alcuni toni un po’ troppo enfatici, quasi melodrammatici, quando deve difendere i suoi Fratelli e la sorella Giorgia. Certo, alcune scelte sono assai discutibili.
Come quando, per esempio, ha scelto come portavoce quel Paolo Signorelli, coinvolto in inchieste relative agli ultras della Lazio e a un giro di stupefacenti e nipote di Paolo Signorelli, teorico dell’estrema destra, esponente di Ordine nuovo e del Fronte sociale nazionale, qualche guaio giudiziario per associazione sovversiva e banda armata.
O come quando, nel 2018, presentò una proposta di legge costituzionale contro l’Unione europea. Diceva il testo Foti che «le norme dei Trattati e degli altri atti dell’Unione europea sono applicabili a condizione di parità e solo in quanto compatibili con i princìpi di sovranità, democrazia e sussidiarietà, nonché con gli altri princìpi della Costituzione italiana». Esattamente il contrario rispetto all’incarico ministeriale appena ricevuto. Forse per questo un Mattarella preoccupato gli ha ricordato: «Ha un bell’incarico, sa…».
I DUBBI DEGLI ALLEATI E L’AVVISO DEL PD
L’incarico a Foti lascia perplessa la maggioranza, che ufficialmente si lancia in compimenti e auguri. E ancora di più l’opposizione. Alcuni del Pd la mettono così: «Forse penseranno che il ministro ombra sarà sempre Raffaele Fitto. Ma a Bruxelles non funziona così, non sarebbe qualificante, soprattutto per Fitto». Che giovedì sarà a Roma per il primo passaggio di consegne.
Più stringate altre fonti Pd: «Meloni ha messo due gerarchi a fare la guardia a due bidoni importanti, i fondi della Coesione e del Pnrr e il gruppo più numeroso e anche più ricco della Camera».
C’è un secondo “gerarca”, infatti, che è stato “promosso” in queste ore: Galeazzo Bignami – che anni fa si travestì da gerarca fascista per un addio al celibato – ha lasciato la casella di viceministro alle Infrastrutture (doveva fare il cane da guardia di Salvini, ma non gli è andata tanto bene) e ha assunto quella di capogruppo della Camera.
La domanda è perché un personaggio che s’incendia così facilmente e molto irruente (tempo fa se la prese con il questore di Bologna perché non aveva messo a tacere chi manifestava contro il governo per l’alluvione) a guida del gruppo della Camera? La risposta è che il partito di maggioranza relativa è sempre più in modalità combat. Anche rispetto ai soci di maggioranza. E nonostante la «proficua collaborazione» che va predicando.
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