Silvio Berlusconi
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Facile trovare i segni dell’innovazione e rivoluzione liberale nei successi dell’imprenditore più che nell’uomo di lotta alla guida del Paese
Con la fine di Silvio Berlusconi resta aperta la domanda: la promessa della “rivoluzione liberale”, con cui esordì sul palcoscenico della politica, è stata mantenuta? Risposta complicata. Il liberalismo di Berlusconi non è mai stato pensiero né progetto, bensì vita e azione. Facile trovare i segni dell’innovazione liberale nei successi dell’imprenditore più che nell’opera dell’uomo di governo.
A lui si deve una delle più profonde svolte liberali della storia d’Italia: la rottura del monopolio pubblico sull’informazione. Fino al suo arrivo, l’informazione – e l’educazione delle masse – era affidata ai partiti che dominavano la Repubblica nel dopoguerra. Prima la Dc, poi il Psi, infine il Pci si spartivano i canali della Rai.
INNOVAZIONE LIBERALE
Finché un imprenditore visionario comincia a distribuire la stessa cassetta registrata a più emittenti per diffondere un telegiornale alternativo in contemporanea in tutta Italia, quando questo è ancora vietato. Quell’iniziativa avvia l’exploit delle tv private.
Le critiche si sono giustamente concentrate, negli anni successivi, sull’eccesso di potere che a Berlusconi derivò dal possesso delle sue reti. Eppure, all’inizio di quella storia c’è una grande innovazione liberale. La stessa che porta nello sport, quando con il Milan stravolge abitudini e monopolio consolidati per internazionalizzare il calcio italiano.
Con Berlusconi, per la prima volta, le squadre italiane si attrezzano con una panchina lunga e una rosa raddoppiata per sostenere la sfida delle coppe europee. Ecco perché, nel 1994, il Cavaliere ha i titoli sufficienti per collegare la sua “discesa in campo” in politica alla promessa di una “rivoluzione liberale”.
In qualche modo, quella rivoluzione è già in parte avvenuta nella mentalità degli italiani. In particolare, nel loro rapporto con la politica. Fino agli anni di Tangentopoli la politica italiana era degradata a un complesso di riti inaccessibili alle persone comuni, governato da un ceto dirigente separato e distante.
L’ARRIVO SULLA SCENA DELL’UOMO DI LOTTA DELLA RIVOLUZIONE LIBERALE
Berlusconi plana sulle macerie della cosiddetta “prima” Repubblica con un linguaggio nuovo, seduttivo, coinvolgente, moderno. Non c’è ideologia alla base di questa epifania, bensì vitalismo ed energia propri di una società civile che sembra riprendersi uno spazio mai davvero attraversato, in un Paese dominato da un intervento pubblico omnipervasivo, frutto di istituzioni gestite per decenni dal consociativismo dei partiti tradizionali.
Berlusconi, così, ha buon gioco nel rifiutare il dirigismo statale, i lacci e laccioli dell’amministrazione, il fisco occhiuto e famelico, la spesa pubblica indiscriminata. Ecco che, all’improvviso, la “Repubblica dei partiti” appare anacronistica: si aprono le porte all’emersione della società civile.
Quelle porte si richiudono quasi subito, non appena il nuovo potere si insedia al posto del precedente: eppure per qualche anno l’Italia, con la secolarizzazione della politica, vive l’ebbrezza del cambiamento. Raccogliendo con almeno dieci anni di ritardo il messaggio di trasformazione del liberismo anglosassone di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, Berlusconi riabilita quell’idea liberale che in Italia non ha mai attecchito per via dell’eredità storica di culture politiche tradizionalmente illiberali: la fascista, la comunista e la cattolica.
Con lui, il termine “liberale” torna a essere positivo. Perfino il centrosinistra è costretto a modernizzarsi e a inseguirlo sullo stesso terreno. Succede così che leader politici come Prodi e D’Alema fanno a gara per riconoscersi nel liberalismo di Clinton e Blair, che ministri postcomunisti come Bersani diventano alfieri delle liberalizzazioni, che presidenti come Renzi azzardano finalmente riforme liberali della scuola e del lavoro.
L’UOMO DI LOTTA E LA PROMESSA TRADITA DI UNA RIVOLUZIONE LIBERALE
Viceversa, il Berlusconi di governo rinnega i suoi esordi. Diversi anni a Palazzo Chigi trascorrono senza una seria riforma liberale del fisco, della scuola, delle pensioni, della giustizia, della Pa. I governi di centrodestra mettono il loro carico su una spesa pubblica scriteriata e corporativa. La lettera che nel 2011 la Bce recapita a Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, chiede all’Italia di rafforzare «con urgenza» il suo impegno alla «sostenibilità di bilancio» e alle «riforme strutturali».
Soprattutto, contiene un vero e proprio programma di governo fatto di misure liberali per «accrescere il potenziale di crescita», «assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche» e migliorare il rendimento delle amministrazioni: liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali, contrattazione salariale al livello d’impresa, norme sul licenziamento e politiche attive per il lavoro, tagli di spesa pubblica (compresi pensioni e pubblico impiego), uso di indicatori di performance nei sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione.
Sappiamo com’è finita. Per evitare il definitivo tracollo dell’economia nazionale e l’aggressione dei mercati al nostro debito pubblico, Berlusconi è costretto a dimettersi, a chiusura di un ciclo di governo nefasto. Ha completamente tradito la sua promessa di rivoluzione liberale, consegnando il Paese ad anni di stagnazione e declino i cui effetti sopportiamo ancora oggi.
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