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Applausi a Giorgia Meloni del suo Governo dopo il discorso alla Camera

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C’ERA una volta Giorgia Meloni, l’amazzone del sovranismo nazionalista che mira a colpire le fondamenta dell’Europa. C’era una volta Giorgia Meloni, giovane Hobbit populista di una piccola patria retriva, ostile alla democrazia occidentale, irriducibile al globalismo individualista americano e alternativa al Patto Atlantico. Ma oggi non c’è più.

Oggi c’è Giorgia Meloni presidente del Consiglio. Dopo dieci anni di opposizione “senza se e senza ma” e due anni di apprendimento alla scuola di Mario Draghi, è arrivata l’ora di giocare in un’altra parte del campo. Quella del pragmatismo di governo. Nel discorso di insediamento di ieri alla Camera, la neopremier recita un nuovo copione sulla scena delle relazioni globali. Tanto diverso dalla sua storia di militante, ma non proprio inaspettato dopo la corrispondenza di amorosi sensi delle ultime settimane con Super Mario.

NESSUNA AVVENTURA

Prima l’esordio polemico: l’Italia, in Europa, non ha bisogno di stare sotto la tutela di nessuno e il popolo italiano «non ha lezioni da imparare». «L’Italia è a pieno titolo parte dell’Occidente e del suo sistema di alleanze. Stato fondatore dell’Unione europea, dell’Eurozona e dell’Alleanza atlantica, membro del G7», ricorda Meloni. Poi va alla ricerca di fondamenta storiche, con il tipico orgoglio di una cultura di destra che ama rivendicare la tradizione. Per la giovane premier, l’Italia anticipa l’Europa, in quanto «culla, insieme alla Grecia, della civiltà occidentale e del suo sistema di valori fondato sulla libertà, l’uguaglianza e la democrazia. Frutti preziosi che scaturiscono dalle radici classiche e giudaico cristiane dell’Europa». E chiarisce: «Noi siamo gli eredi di San Benedetto, un italiano, patrono principale dell’intera Europa».

L’Italia, garantisce Meloni, farà sentire la sua voce non “verso”, ma “dentro” le istituzioni Ue. Consapevole dei timori di molte cancellerie europee, Meloni precisa che non è sua intenzione «frenare o sabotare l’integrazione europea, come ho sentito dire in queste settimane», quanto piuttosto «contribuire a indirizzarla verso una maggiore efficacia nella risposta alle crisi e alle minacce esterne e verso un approccio più vicino ai cittadini e alle imprese». Al primo posto, la sfida dell’approvvigionamento di energia e di materie prime. Il messaggio è chiaro. Il governo guidato da Fratelli d’Italia non è in cerca di avventure come il governo gialloverde del 2018. Nessun conato di Italexit, nessuna idea di abbandonare il gruppo dei Paesi membri com’era nelle intenzioni di leghisti e pentastellati. Semmai, sotto sotto, c’è la speranza di giocare un ruolo di guida, come è riuscito a fare Mario Draghi in 20 mesi di incarico. Ma questo è tutto da verificare. Meloni è ancora parecchio lontana dal suo modello di riferimento.

MIGLIORARE LA UE

Per ora, serve rassicurare le istituzioni di Bruxelles, gli Stati membri e i mercati internazionali: per questo la neopremier rassicura i partner: il nuovo governo rispetterà le regole europee, specie quelle di bilancio. Ma aggiunge che, nel contempo, «offrirà il suo contributo per cambiare quelle che non hanno funzionato», in particolare in materia di patto di stabilità e di crescita, sulla scia del suo predecessore.

Nei mesi scorsi Mario Draghi ha più volte chiesto un cambio di passo dell’Europa promuovendo la stabilizzazione di un bilancio comune europeo a partire dalla positiva esperienza del Next Generation Eu. Una battaglia comune con Emmanuel Macron: non è un caso che il presidente francese sia stato il primo capo di governo incontrato da Meloni, anche per rafforzare un fronte comune contro le idee rigoriste di Germania e Olanda. C’era poi grande attesa per le parole di Meloni sulla politica estera. La coalizione di governo è sostenuta dai partiti di due leader, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, che più volte hanno manifestato ostilità nei confronti della resistenza ucraina, simpatia nei confronti di Vladimir Putin e volontà di chiudere la guerra in corso anche a costo di ampie concessioni territoriali alla Russia. Di nuovo, Meloni traccia la linea. Esprime sostegno al “valoroso popolo ucraino” in modo inequivocabile. Poi fa un collegamento logico molto più sofisticato di quanto una lettura superficiale potrebbe suggerire. Non giustifica il sostegno all’Ucraina con motivazioni vagamente morali o ideali, ma con ragioni pratiche, capaci di parlare anche alla testa e al cuore dell’elettorato di destra: «È il modo migliore di difendere il nostro interesse nazionale».

Solo dopo aggiunge un appunto etico: «Sbaglia chi ritiene possibile barattare la libertà dell’Ucraina con la nostra tranquillità». Ma è evidente, ancora una volta, la consapevolezza che regalare l’Ucraina alla Russia significherebbe creare una condizione di instabilità permanente in Europa con conseguenze letali anche per l’Italia.

PIÙ FORTI ALL’ESTERO

Per Meloni, inoltre, «l’Alleanza Atlantica garantisce alle nostre democrazie un quadro di pace e sicurezza e che troppo spesso diamo per scontato». Musica per le orecchie degli Usa e, in generale, degli alleati atlantici. In più, «soltanto un’Italia che rispetta gli impegni può avere l’autorevolezza per chiedere a livello europeo e occidentale, ad esempio, che gli oneri della crisi internazionale siano suddivisi in modo più equilibrato». A questo proposito, Meloni segnala che l’instabilità politica che da sempre caratterizza la storia della Repubblica «è la ragione per la quale la capacità negoziale dell’Italia nei consessi internazionali è stata debole». Insomma, servono riforme per rafforzare gli esecutivi e rendere l’Italia più forte e ascoltata nelle istituzioni europee.

Dal primo discorso di Meloni emerge così il profilo di una destra liberaldemocratica sul fronte europeo e internazionale. Adesso si tratta di passare dalle parole ai fatti. Checché ne pensi Meloni, Bruxelles continuerà a vigilare sul tema spinoso dei diritti civili. E, soprattutto, bisognerà capire quanto reggeranno Berlusconi e Salvini nelle vesti di paladini dell’Occidente contro Putin.


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