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LA SENTENZA di mancata convalida da parte del giudice di Catania del provvedimento del Questore che ha disposto il trattenimento, negli appositi centri di permanenza per rimpatri, di tre migranti provenienti dalla Tunisia, in attesa di accertamenti per valutare se avessero diritto alla protezione, ha acceso contrapposte polemiche: da una parte sul contenuto del provvedimento giurisdizionale, e dall’altra sulle critiche mosse su questo provvedimento da esponenti governativi. Si è aggiunta, come ulteriore materia di polemica, la condotta del giudice per la sua precedente partecipazione a una manifestazione di protesta contro l’indirizzo politico governativo in materia di immigrazione e respingimento, comportamento che ne avrebbe messo in discussione la imparzialità; mentre dall’altra parte si è rivendicata e contrapposta la libertà di riunione e di manifestazione del pensiero che la costituzione garantisce al cittadino indipendentemente dalla professione che esercita.
Basterebbe questo per porre in evidenza due nodi che pongono questioni generali di grande rilievo, le quali meritano una riflessione sgombra da schieramenti pregiudiziali. Per affrontarle è anche opportuno rifuggire dai toni alti che animano le polemiche di questi giorni, ed ai quali invece invita l’uso dei mezzi di comunicazione per ottenere un impatto immediato sull’opinione pubblica, mentre rischiano di oscurare la sostanza dei problemi.
Il provvedimento del questore di Catania che dispone il trattenimento, in un centro di permanenza per i rimpatri, dei migranti che chiedono l’applicazione di misure di protezione, per una durata massima che può giungere sino a 18 mesi, deve essere convalidato dal Giudice con sua sentenza, perché incide sulla libertà personale, la quale può essere ristretta, secondo quanto dispone l’articolo 13 della Costituzione, solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria, nei casi e nei modi previsti dalla legge. E la legge consente l’adozione di questa misura restrittiva, particolarmente per chi sia privo di documenti che ne consentano la identificazione, prevedendo altrimenti misure alternative quali la dimora in un determinato luogo o l’obbligo di presentazione agli uffici di polizia.
La sentenza del giudice di Catania sui migranti può essere criticata, come ogni provvedimento giurisdizionale, nella motivazione e nelle conclusioni. La critica non è riservata al dibattito scientifico ed alle riviste giuridiche, ma può investire anche l’opinione pubblica e al limite è consentito un giudizio politico sugli effetti che la decisione giurisdizionale determina, e che possono essere valutati negativamente. Questo non “delegittima”, come si usa dire, il giudice, il quale non fonda la propria legittimazione sul plauso dell’opinione pubblica o sul consenso degli altri poteri dello Stato, nè deve considerare indiscutibili e inattaccabili le decisioni delle quali può essere saldamente convinto. Le critiche, anche quelle di esponenti politici e governativi, lo devono lasciare indifferente, giacché assume le proprie decisioni con la serenità fondata sulle garanzie che la costituzione gli assicura. Naturalmente è sempre più che opportuno, forse anche dovuto, un uso sobrio delle parole da parte di chiunque ricopra ruoli istituzionali.
La contestazione di una decisione giurisdizionale, che pure si considera sbagliata e al limite si sospetta inquinata da partigianeria, ha rimedi nelle impugnazioni destinate a modificare o capovolgere quel provvedimento. Questa è la soglia minima della leale cooperazione tra istituzioni, pur senza che questo determini commistione di ruoli. La seconda questione, ancor più delicata, riguarda la imparzialità del giudice, che costituisce essenza della giurisdizione. Ogni processo, afferma la Costituzione, si svolge davanti ad un giudice terzo e imparziale. Il giudice deve non solamente sentirsi ed essere imparziale, ma anche non dar modo che non lo si consideri tale. Questo è il significato della comune espressione per la quale il giudice deve anche apparire imparziale. Non ne deriva una diminuzione nel godimento dei diritti di riunione e di manifestazione del pensiero, ma occorre avere la consapevolezza che ne può derivare una restrizione dell’immagine di imparzialità e di conseguenza delle materie o dei casi nei quali è opportuno che quel giudice sia chiamato a giudicare. Sono quelle gravi ragioni di convenienza che, secondo le regole del processo, devono indurre il giudice a chiedere di astenersi, proprio perché in quella materie o in quel caso può essere percepito come non imparziale.
Quindi non gli è vietato manifestare posizioni politiche, anche se la sobrietà nelle parole e nelle azioni riguarda anche questo aspetto. Ma se ha manifestato contrapposizione ad una legge, difficilmente può essere percepito come imparziale quando dovrebbe applicarla.
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