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Quella consumata sulle macerie di Kiev potrebbe essere una pace brutta, e anche breve. Gli imperi di Trump, Putin e Xi. Il mondo come menù à la carte


La notizia del cessate il fuoco parziale sul Mar Nero, raggiunto ieri, martedì 25 marzo 2025, da Russia e Stati Uniti nelle trattative sull’Ucraina, potrebbe apparire un passo nella direzione giusta, quella di una sospirata sospensione delle ostilità.

IL CESSATE IL FUOCO SUL MAR NERO

Ma le modalità con cui tale intesa è stata firmata meritano una riflessione più approfondita. Il nerbo della questione si nasconde in un verbo, quel “ordinare” utilizzato nella mattinata di ieri dal Ministro degli Esteri russo Serghej Lavrov: Mosca era a favore dell’accordo sui mari, aveva detto il capo della diplomazia russa, ma Kiev faceva ostruzionismo; per risolvere la questione sarebbe bastato che Washington, appunto, ordinasse a Kiev di acconsentire all’intesa. Detto fatto, poche ore più tardi la Casa Bianca poteva annunciare l’accordo dopo la marcia indietro ucraina. Più sostanza che forma, dietro le parole dei russi e i gesti degli americani si nasconde una visione precisa di quali dovranno essere il nuovo ordine internazionale che caratterizzeranno la pace post-bellica: un ordine basato sui rapporti di forza e sulla politica di potenza, sulle sfere di influenza e sulla divisione tra potenze di serie A e potenze di serie B. E ci sono pochi dubbi su chi rientrerebbe nella prima categoria: le citate Russia e America, con l’aggiunta naturale della Cina.

ACCORDO TRA LE TRE GRANDI POTENZE

Questo scenario passerebbe inevitabilmente da un accordo tra le tre grandi potenze, suggellata da uno scambio di territori strategici da annettersi in libertà alle proprie sfere d’influenza neo-imperiali: «Chi non siede al tavolo, è nel menù», come ha ricordato qualche tempo fa il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi. E i territori sono la portata principale.

Per Mosca si tratta l’Ucraina, meta agognata e tutt’ora inconquistata in tre anni di conflitto che hanno sì frustrato le ambizioni del Cremlino, ma anche elevato il significato simbolico della riunione di Kiev all’alveo nella grande patria panrussa.

La Malorussia (letteralmente, Piccola Russia), come è chiamata l’Ucraina nel pensiero nazionalista russo, costituisce infatti insieme alla (Grande) Russia stessa e alla Bielorussia (Russia Bianca) uno dei tre tasselli irrinunciabili per ricostituire quell’impero che farebbe uscire Mosca dalla sua condizione di sub-potenza in cui versa dal 1991. E che permetterebbe finalmente a Vladimir Putin di fregiarsi del titolo di Zar di tutte le Russie (questo è infatti sempre stato il significato pluralistico del titolo).

IL PIATTO FORTE PER GLI USA È LA GROENLANDIA

Un obiettivo così ambito da non transigere nemmeno di fronte alla prospettiva di diventare il junior partner di Pechino. Per l’America il piatto forte è la Groenlandia: un’altra terra immensa, che porta con sé la promessa di un nuovo mito della frontiera, alla conquista delle sue preziose ricchezze minerarie, e con esso di una nuova verginità per un impero americano che inizia a mostrare i suoi anni.

E al contempo diventa il simbolo per trasformare quello che fino adesso è stato un impero culturale ed ideologico, esercitato coi mezzi del soft power, in un potentato politico che catturi sotto di sé tutto il continente nordamericano, dal Canada a Panama.

Certo, per Mosca e Washington sarebbe una soluzione di ripiego: fallita la spallata finale per il dominio definitivo del mondo, i due paesi dovrebbero accontentarsi di un nuovo codominio che in qualche modo presupponga la coesistenza (ideologica e geopolitica) di entrambi. Un assetto a cui la Cina, rimasta fuori dallo scontro ucraino, potrebbe non sentire il bisogno di adeguarsi ma che potrebbe guardare con benevolenza se venisse incontro ai suoi interessi.

LA CINA

In primis, il completamento della riunificazione nazionale, causa che il Presidente Xi Jinping ha fissato come obiettivo imprescindibile da realizzare entro il centenario della Repubblica Popolare, nel 2049. Tradotto: l’annessione di Taiwan, isola autonoma a lungo rivendicata ma sotto protezione militare americana.

In secondo luogo, la Cina otterrebbe così il riconoscimento definitivo del proprio ruolo di grande potenza, completando un lungo percorso di riscatto politico che muove da una precisa percezione della propria condizione: quella di essere una nazione-civiltà, che è stata al centro degli equilibri mondiali per millenni prima di essere quasi distrutta nell’impatto con la modernità occidentale e che da allora ha compiuto immani sacrifici per uscire dalla sua condizione contadina e ritornare ai vertici del mondo. Lo scrisse lo stesso padre della Repubblica Popolare, Mao Tse-tsung, in una poesia intitolata “Kunlun” e dedicata all’omonima montagna: «Se il cielo mi fosse patria, sguainerei la mia spada/ ti taglierei in tre pezzi/ uno in regalo all’Europa/ uno all’America/ ma uno lo terrei per la Cina/ e sarebbe la pace a dominare il mondo».

La spada guerresca divide la terra e la spartizione delle parti assicura la pace. Ma di quale pace si potrebbe parlare in questo intreccio partitorio? Improbabile che una logica così traffichina possa imitare simili momenti di accordo-scambio tra superpotenze, come la conferenza di Yalta che seguì la Seconda Guerra Mondiale, forse cinici ma se non altro capaci di generare una pace duratura.

PACE ARMATA E VESSATORIA

Ciò a cui assisteremmo casomai è una pace armata e vessatoria, basata su degli imperi molto simili a quelli predetti da George Orwell, sia nella loro genesi quanto nella forma.
La celebre divisione del mondo prospettata dallo scrittore britannico nel suo romando “1984” tra le superpotenze autoritarie di Oceania (America), Eurasia (Russia) ed Estasia (Cina) riecheggia le vicende odierne con eccezionale precisione, ma pochi sanno che Orwell aveva preannunciato i concetti del suo testo più celebre in un articolo pubblicato sul quotidiano Tribune il 19 ottobre 1945.

In esso, lo scrittore – stimolato dall’uso della bomba nucleare pochi mesi prima – affrontava «la prospettiva di due o tre mostruosi super-stati […] che si dividono il mondo tra di loro».

GLI IMPERI PREDETTI DA ORWELL

Invece di una nuova guerra mondiale, Orwell immaginò che le tre «grandi nazioni» potessero fare «un tacito accordo» incentrato sulla promessa di non usare l’arma atomica l’una contro l’altra, bensì di usare la propria superiorità per dividersi il mondo: «in tre grandi imperi, ognuno autonomo e tagliato fuori dal contatto con il mondo esterno, e ciascuno governato, sotto una maschera o un’altra, da un’oligarchia eletta. […] Incapaci di conquistarsi l’un l’altro, è probabile che continuino a dominare il mondo tra di loro, ed è difficile vedere come l’equilibrio possa essere sconvolto […] Forse non ci stiamo dunque dirigendo verso un crollo generale, ma verso un’epoca terribilmente stabile come gli imperi schiavisti dell’antichità».

Lungi dal portare l’equilibrio tra le potenze la spartizione del globo avrebbe condotto dunque a «una pace che non è pace». Ecco, allora, che lo scenario che si prospetta: non una pace giusta, ma una pace brutta. Una pace in cui la corsa agli armamenti manterrebbero alta la tensione internazionale. Una pace che lascerebbe senza garanzie gli Stati minori, se non quella di poter divenire preda dei più forti. Una pace raggiunta non per affermazione di un attore sugli altri ma per esaustione dei due contendenti, dei russi come degli americani.

UNA PACE CHE RICORDEREBBE QUELLA SIGLATA A VERSAILLES NEL 1919

Nell’era moderna è una pace che ricorderebbe molto quella siglata a Versailles nel 1919. La Germania aveva perso, eppure nel momento della fine alle ostilità il suo esercito ancora occupava un terzo della Francia, con gli eserciti alleati evidentemente troppo provati per poter assestare un colpo definitivo alle forze del Kaiser.

Ne risultò una pace a metà, a cui seguì l’irresponsabile ritiro americano in un isolazionismo casalingo che tradì sul nascere le fondamenta dell’ordine internazionale da loro stessi propugnato. E che lasciò una nazione giovane che si era fatta nazione nel sangue delle trincee come l’Italia con l’impressione di essere stata tradita dai suoi ex alleati, aprendo la strada a una svolta autoritaria dalle nefaste conseguenze. Una sorte che già molti analisti prefigurano come uno scenario plausibile per l’Ucraina post-bellica.

UNA PACE BRUTTA

Il generale Ferdinand Foch, con una massima passata alla Storia, definì quella di Versailles: «Non una pace, ma una tregua di vent’anni». Gli eventi gli diedero poi ragione. Come allora, dunque quella consumata sulle macerie di Kiev potrebbe essere una pace brutta, e anche breve.

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