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Il ritiro della candidatura di Biden dalla corsa alla Casa Bianca per i Dem non è mai troppo tardi. Ora con Kamala il vento può girare
E adesso è tutta un’altra questione. Cambia contendenti la corsa alla Casa Bianca, alla poltrona politica più ambita, affascinante, scomoda e terrorizzante del mondo. Adesso tocca a Kamala Harris.
IL PESO DEI SONDAGGI
Joe Biden lascia, “per il miglior interesse del mio partito e del mio Paese”, scrive il presidente ancora in carica degli Stati Uniti d’America. Lo fa dopo aver tentato sino all’ultimo di non mollare la presa, lo fa sopraffatto dai sondaggi negativi, dalla pressione della stampa liberal, dal ritiro di alcuni potenti e irrinunciabili finanziatori, dalla temperatura siderale dell’atteggiamento dei grandi nomi del partito democratico.
“Finisce mezzo secolo di potere a Washington”, titola il Wall Street Journal con rispetto per Biden, per un politico di spessore che, incaponendosi, rischiava di macchiare il proprio lascito politico e di abbandonare al prezzo di scarsa fatica l’America al suo opposto, al peggior avversario, al Donald Trump, interprete supremo di quello che Giuliano Ferrara definisce sul Foglio (con non celato interesse politico) il “tribalismo antielitario del superdemagogo”.
Trump dichiara: “battere lei (Harris ndr) sarà ancora più facile che battere lui”. Non è affatto detto, anche se è detto che “lei” parte sfavorita.
Sarà un finale di campagna elettorale pieno di inediti, o quasi inediti. Per la prima volta candidata presidente una donna di colore e una persona di origine asiatica, 59 anni, padre giamaicano, madre indiana.
Per la prima volta cambia un candidato. Il precedente di Lyndon Johnson che si ritirò nel 1968 non fa testo, era l’anno degli assassinii di Robert Kennedy e Martin Luther King e non era a soli tre mesi e mezzo dal voto.
Kamala Harris deve risalire la china. È meno popolare di Trump e, sinora, lo era anche meno di Biden. È stata una numero due in ombra. Ora si potrà verificare quanto per suoi limiti o quanto perché in ombra l’ha lasciata Biden, consegnandole oltretutto alcune mission impossibile, come il dossier sull’immigrazione.
Ma il vento può girare: dopo il passo indietro di Biden, in mezza giornata il partito democratico ha raccolto on line 49 milioni di dollari da piccoli donatori. La somma più alta, in un giorno, per i democratici, dalle elezioni del 2020. Nelle 24 ore successive alla condanna penale di Trump il partito repubblicano aveva raccolto 53 milioni, calcoli del New York Times. Così van le cose in America.
ORA IL VENTO PUÒ GIRARE
Kamala Harris è stata leale con Biden. È il lascito positivo di una presidenza che consegna un’America in buone condizioni economiche, che molto ha fatto sui terreni delle infrastrutture, dell’ambiente, delle politiche sociali, che ha nominato la prima giudice afroamericana in una Corte Suprema affidata invece da Trump nelle mani dei conservatori per i decenni a venire. Meno bene ha fatto (Ucraina a parte) l’amministrazione in carica in politica estera (Afghanistan, Medio Oriente).
Nelle ultime settimane proprio Harris ha spostato un po’ il tiro verso la considerazione nei confronti dei palestinesi e della situazione a Gaza, una volta finita la guerra.
Ma prima di arrivare allo scontro con Trump (“sono pronta a batterlo”) Kamala dovrà convincere il suo mondo. Subito dopo l’annuncio di Biden, ha speso più di 10 ore al telefono a sostenere sé stessa parlando con oltre 100 persone: leader di partito, parlamentari, governatori, attivisti, sindacalisti, difensori dei diritti civili.
È vicina a Biden, ma diversa da lui, e da Trump, e non solo per ovvie questioni anagrafiche.
Donna d’ordine, ma liberal, potrebbe convincere ad andare alle urne quel “ceto elettorale” che vive con distacco le convulsioni della politica, il suo estremizzarsi, ma al tempo stesso si vede minacciato dal trumpismo arrembante. Non tanto sul terreno economico quanto su quello dei diritti civili, dei modelli religiosi, delle scelte didattiche imposte ai propri figli.
Un ceto che si è probabilmente stufato degli eccessi del politically correct, ma che rimane anche convinto che chiunque (o quasi) sarebbe meglio di Trump presidente.
Suo compito sarà unificare e far sognare, è stato scritto: sacrosanto, inevitabile, ma complicato. Non ha ancora tutti i democratici dalla sua; ha i Clinton, alcuni governatori, la sinistra del partito. Più orientati a una competizione, Obama, Nancy Pelosi, i leader al Congresso Schumer e Jeffries. Se prevarrà dovrà scegliere un vice, nel caso, sicuramente un maschio bianco.
Se si arrivasse a far decidere il nome del candidato a Chicago, il 19 agosto, alla Convention democratica, il rischio del fuori tempo massimo in vista delle elezioni del 5 di novembre sarebbe altissimo.
Si vedrà. Nel frattempo qualcuno potrebbe rammentare che Kamala è un’ ex procuratore generale. E Donald è un attuale condannato per reati penali.
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