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Emmanuel Macron

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Lo scenario dopo le elezioni francesi: Macron alle prese con il rebus di governo sulle alleanze. Centristi più forti in Europa, per Meloni poco spazio di manovra


La destra francese è stata sconfitta. Il problema è che ha vinto il diavolo che ha combinato i numeri in modo tale per cui nessuno ha veramente la maggioranza e ciascuno dovrà provare a dialogare con qualcun altro. Sarebbe il bello della politica ma dopo un mese di attacchi, affondi, ultimatum ed esecuzioni verbali, risulta molto difficile trovare una soluzione.

Per il presidente Macron non sarà nè facile nè veloce. Una cosa però è certa nel complicato rebus che si è appalesato in questo mese elettorale: per la nuova governance europea il puzzle delle alleanze va verso una soluzione abbastanza obbligata. Nel senso che von der Leyen, nel cercare la maggioranza con cui il 18 luglio chiederà all’Europarlamento di essere confermata al bis a Bruxelles, guarderà più a sinistra che a destra. Ma continuerà a chieder anche l’appoggio di Fdi e di Giorgia Meloni. I più illusi, in questo mese, e quindi anche i più delusi.

“I Conservatori sono il terzo gruppo europeo, abbiamo scavalcato i centristi di Renew Europe, e come tale vogliamo pesare ed essere rispettati” rivendicò a Montecitorio Meloni nelle comunicazioni alla vigilia del vertice Ue del 27 e 28 giugno. Dieci giorni dopo invece i Conservatori rischiano di scivolare al quinto posto. Al quarto sicuro. Al terzo ci va il nuovo gruppo delle destre identitarie, nazionaliste, euroscettiche e filo Putin formato dagli amici Viktor Orban e Matteo Salvini. Un divorzio? O un diversivo, della serie “andate avanti voi che poi vi raggiungo”.

Non è un caso se fino adesso la premier si è ben guardata dal fare ogni tipo di commento sul voto francese e sulla situazione nei gruppi nel parlamento europeo. Quel che è peggio, sperava di essersi levata di torno Macron che invece è vivo e vegeto al tavolo dei grandi, dal Consiglio europeo al vertice Nato che inizia giovedì a Washington e che avrà come ospite d’onore il nuovo primo ministro inglese e molto labour Keir Starmer. Conviene andare con ordine. Anche perchè tutto si tiene in questa primavera-estate elettorale.

Per parlare di Francia è necessario fissare alcuni numeri. Per avere la maggioranza all’Assemblea nazionale servono 289 voti (l’aula conta 577 seggi). Il Nuovo fronte popolare, il cartello politico messo insieme dalla sinistra, ha ottenuto 182 seggi, i centristi di Ensemble, il “partito” di Macron è arrivato a 168 con una rimonta incredibile dopo un primo turno in cui è stato subito chiaro che il partito del Presidente avrebbe perso la maggioranza (cosa che ha creato non poche tensioni anche tra i fedelissimi di Macron). Il Rassemblement national, con l’aggiunta dei Repubblicani di Ciotti è arrivato a 143. Nessuno delle tre grandi alleanze ha la maggioranza. Che quindi va trovata in base ai programmi o almeno ad alcuni passaggi importanti come la politica estera e legge di bilancio.

Ora non c’è dubbio che ci sia molto poco in comune tra le politiche dei centristi e quelle, giusto per fare un nome, di Melenchon, leader di La France Insoumise, l’estrema sinistra francese. Molti francesi sono incompatibili tanto con Le Pen che con Melenchon. Il quale, però, a livello di NFP ha avuto la maggioranza degli eletti (74) a cui si aggiungono tre dissidenti. I socialisti di Glucksmann avranno 59 deputati, gli ecologisti 28 e il partito comunista 9. Quei 74 seggi hanno fatto dire a Melenchon già ieri mattina all’alba che “Macron dovrà conferire a lui l’incarico per fare il governo”.

Ugualmente, il ministro dell’Interno Gerard Darmanin ha escluso qualsiasi possibilità di “governare o sostenere una coalizione che abbia un qualsiasi legame con La France Insoumise”. Cioè con Melenchon. Rieletto a Tourcoing, nel nord, Darmanin ha detto ai giornalisti che la stessa regola di esclusione “vale per il Rassemblement National”. E ha lanciato una proposta di collaborazione con il Partito socialista: “Bisogna chiedere al Partito socialista di Glucksmann se accetta di rompere con la France Insoumise e si vuol mettere al tavolo per cominciare a discutere sui temi”. In generale Darmanin ha detto parole di grande verità: “In questa fase serve molta umiltà. Nessuno ha veramente vinto e chiunque dovrebbe evitare pretese”.

Ci vorrà tempo per far sedimentare un mese di campagna elettorale al cardiopalma dove fino all’ultimo sembrava dovesse vincere la destra lepenista nata dalla ceneri di Vichy. Intanto Macron ha respinto le dimissioni del premier Attal e del suo governo a cui ha chiesto di restare in carica per gli affari correnti e magari anche qualche cosa di più vista l’imminenza delle Olimpiadi e le massicce misure di sicurezza. Ci sono anche le celebrazioni del 14 luglio. Insomma, tra agende di politica estera (vertice Nato dal 9 all’11; 17-18 le votazioni all’Europarlamento) ed impegni interni (le celebrazioni per la Bastiglia e la semifinale a Berlino degli Europei), l’inquilino dell’Eliseo sembra intenzionato a mettere la giusta distanza tra i risultati e la formazione di una nuovo governo che dipenderà dalla costituzione di nuove coalizioni e alleanze.

Costituzionalmente, il presidente Macron al governo non ha l’obbligo di scegliere il suo Primo Ministro, nè di fissare una scadenza per la sua nomina. Lascerà fare i partiti e i rispettivi leader. La Francia è un pagliaio ad alto rischio incendio e non va sottovalutato.
In tutto questo, von der Leyen “festeggia” e Meloni “piange”. E’cambiato tutto in un mese e non come aveva previsto. La situazione si è ribaltata. E la premier è nell’angolo a livello europeo. E anche interno. In Europa i “suoi” Conservatori sono stati retrocessi alla quarta posizione con 78 deputati mentre brilla il nuovo gruppo odi destra dei Patrioti dove è confluita tutta Identità e democrazia. A cominciare da Salvini e da Le Pen. Entrambi stanno facendo campagna acquisti anche dentro i Conservatori.

Non erano questi i patti tra la premier e il suo vice. Che, resuscitato dal voto e dal 3% di Vannacci, scalcia da tutte le parti per avere visibilità e contare. La sua base lo osserva basita ed esterrefatta (“noi non c’entriamo nulla con Le Pen e Orban”). A livello nazionale Salvini sembra fuori controllo: spinge per i levare l’obbligo dei vaccini ai ragazzi e per rendere la maternità surrogata “reato universale”. Che non si capisca cosa voglia dire visto che in Italia non è praticabile. A livello europeo lavora per spingere Meloni verso i “Patrioti” e far saltare il tavolo di von der Leyen. Anche i rapporti tra Forza Italia e Lega sono ai minimi storici. “La sinistra si ricompatta perchè teme la destra estrema” ha accusato Tajani.

La premier tace, ascolta, lavora al Piano Mattei. Incassa rate del Pnrr e privatizzazioni. Bruxelles facilita i dossier in questi periodo, dal Pnrr a Ita. Tutto pur di favorire lo strappo: lasciare quella destra che le sta sussurrando alle orecchie una ritirata nazionalista, antieuropea e nemica della Nato che sarebbe imperdonabile; virare ora e per sempre verso una destra conservatrice ma europea, atlantista, contemporanea. E’ una scelta difficile per una leader e premier che ha recitato entrambe i ruoli in questi diciotto mesi di governo. Ma è adesso il momento della verità.


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