X
<
>

Viktor Orban e Giorgia Meloni

Share
6 minuti per la lettura

LA PARTITA europea è appena iniziata e Giorgia Meloni ha scelto la tattica dell’azzardo, qualcuno lo potrebbe chiamare bluff . Se le va bene, alla fine potrà dire di aver “vinto” perché «l’Italia finalmente è stata rispettata». Che è un bluff, perché l’Italia, come vedremo, poteva già vincere ieri sera. Se però Meloni dovesse spingere il suo azzardo troppo in là, non riuscire a fermarsi e cadere nel burrone, il problema è che perderemo tutti. Ed è una faccenda molto seria.

ITALIA E UNGHERIA UNITE SUL NO

«Non è vero che ho isolato l’Italia» ha messo le mani avanti la premier nel punto stampa dopo la votazione, l’una di notte tra giovedì e venerdì. Un’ora prima, nella grande sala al quinto piano dell’Europa building dove si riunisce il Consiglio europeo, è successo quello che Meloni aveva annunciato ma a cui pochi avevano creduto: si è astenuta sulla nomina di von der Leyen «per questioni interne di maggioranza», cioè per evitare una crisi di governo, visto che il vicepremier Tajani è una colonna del Ppe e von der Leyen è la candidata dei Popolari. Meloni ha poi votato contro le altre due caselle top jobs: il presidente del Consiglio europeo, il portoghese Antonio Costa, socialista, che sarà il futuro padrone di casa dei Consigli europei, in omaggio alla promessa «mai al fianco di un socialista e della sinistra»; e contro anche la macroniana, nel senso liberale, premier estone Kaja Kallas che sarà l’Alto commissario per gli Affari esteri. Faceva impressione lo schema delle votazioni: 25 Paesi a favore, solo Italia e Ungheria contrari o astenuti.

«Ho dimostrato che l’Italia esiste – ha aggiunto la premier – Non temo neppure che ci siano ripercussioni: non voglio credere a chi dice che adesso l’Europa ce la farà pagare». Ovviamente il pacchetto di nomine, nonostante l’impegno di Italia e Ungheria, è passato con un largo consenso, 25 Stati su 27. Come ha sottolineato lo stesso Michel in una conferenza stampa convocata quando ormai era l’una del mattino. «Missione compiuta – ha detto – Era necessario farlo in giornata e ci siamo riusciti. Questo è un segnale forte che diamo ai cittadini europei rispetto alla capacità della democrazia di essere efficace, diretta e conseguente».

Giorgia Meloni ha lasciato subito Bruxelles. Affidando le ragioni di una scelta così importante e dirimente a un post su X: «La proposta formulata da popolari, socialisti e liberali per i nuovi vertici europei è sbagliata nel metodo e nel merito. Ho deciso di non sostenerla per rispetto dei cittadini e delle indicazioni che da quei cittadini sono arrivate con le elezioni. Continuiamo a lavorare per dare finalmente all’Italia il peso che le compete in Europa».

LA PARTITA DI GIORGIA È UN POKER D’AZZARDO RISCHIOSO

Il punto è: o Meloni è vittima di un grosso abbaglio politico, anche numerico, oppure sta giocando una rischiosissima partita a poker. L’abbaglio è che non è vero che «la destra ha vinto e i Conservatori anche». Fratelli d’Italia sono il primo partito in Italia, ma il gruppo europeo di cui Meloni è anche leader – i Conservatori – è arrivato terzo dopo Popolari e Socialisti. Un terzo posto che non fa maggioranza in alcun modo. Dall’altra parte, invece, per quanto i Liberali di Macron siano stati retrocessi a quarto partito, c’è nei programmi e nei numeri una maggioranza di fatto, quella che ha deciso i Top Jobs. Di questo hanno discusso per due settimane, ancora giovedì pomeriggio, delegati e negoziatori. Meloni invece insiste nel pretendere un riconoscimento perché «i cittadini hanno votato, hanno chiesto un cambiamento e bisogna darglielo».

È arrivata anche a minacciare: «Pensate di avere la maggioranza? Lo vedremo in Parlamento (europeo, ndr) al momento del voto». Alludendo al fatto che la maggioranza Ppe-S&D-Liberali ha 399 voti su 720 (magic number 361) ma questi numeri non danno la certezza a von der Leyen di essere eletta e di fare partire la complessa macchina europea. L’esperienza dice che va messo in conto il 15% dei franchi tiratori. Su 399 sono circa 50 voti che la Presidente designata deve assolutamente trovare prima del 18 luglio, giorno in cui sarà convocata la plenaria a Strasburgo.

LA MINACCIA ALLA UE DI FAR SALTARE TUTTO

Von der Leyen, Scholz e Macron avevano messo in conto le bizze di Meloni. Dopo le durissime Comunicazioni rese dalla premier al Parlamento italiano prima del Consiglio, i leader europei, soprattutto i Popolari, hanno anche tentato una sorta di corteggiamento: «L’Italia è fondamentale»; «Non c’è Europa senza Italia»; «Sicuramente l’Italia avrà l’ascolto e il ruolo che merita». Un tentativo di portare tutti a bordo nella votazione. A un certo punto, giovedì sera, uscivano dalla sala del Consiglio indiscrezioni su Meloni «molto collaborativa» che ha fatto «proposte utili all’agenda programmatica». «Vedrete che non ci sarà neppure bisogno di votare. Sono tutti d’accordo». Non è andata così. Ed è chiaro l’azzardo di una partita che inizia adesso, dove l’Italia di Giorgia deve inseguire: se insiste nel chicken game rischia di restare con poco o nulla in mano, condannando il governo, e quindi il Paese, all’irrilevanza.

Sul bis della von der Leyen, ha detto la premier, «è stato deciso un voto di astensione nel rispetto delle diverse valutazioni tra i partiti della maggioranza di governo e nell’attesa di conoscere le linee programmatiche e aprire una negoziazione sul ruolo dell’Italia». Il Piano A della premier italiana era di rinviare tutta la votazione. Quando ha visto che non riusciva, che il Consiglio avrebbe tirato dritto, ha tirato fuori il Piano B: votare contro, oppure astensione, e cominciare a trattare su tutto, perché il 18 luglio , è il metamessaggio, «faccio saltare l’elezione di Ursula». Putin, e anche Xi, sono già lì con il pop corn. E dire che Meloni aveva già ottenuto molto: la promessa di un commissario di peso (nelle materie economiche), con deleghe nel bilancio e nel Pnrr, che sono quelle che più ci interessano. E su cui siamo più deboli. La promessa, anche, di una vicepresidenza. È chiaro che tutto questo non può essere detto adesso. «Non posso aprire la trattativa sui commissari prima di essere eletta» ha giustamente fatto osservare von der Leyen.

Nella lettera con cui si è presentata al Consiglio, la presidente uscente ed entrante ha dato ragione su tutto all’Italia sul fronte dell’immigrazione. Il modello Albania, cioè l’esternalizzazione, sarà quello da seguire. Sul Pnrr abbiamo ottenuto flessibilità nei progetti e nelle date. La procedura d’infrazione per eccesso di deficit è passata quasi in cavalleria, se ne riparlerà a settembre. Insomma, von der Leyen ha già dato molto al governo Meloni, forte del motto: «I governi si aiutano e non si ostacolano».

L’AZZARDO DI GIORGIA E L’INCOGNITA DELLA QUINTA RATA

La risposta è stata l’astensione. Il povero Tajani non ci ha fatto una bella figura. C’è da vedere ora cosa succederà con la quinta rata del Pnrr: 13 miliardi di cui le nostre casse hanno bisogno come dell’aria. Gli altri Paesi l’hanno già avuta. Ieri mattina palazzo Chigi ha pompato la notizia che Bruxelles ha accolto la richiesta per la sesta rata e che «siamo i primi in Europa». Peccato che accogliere l’incartamento non voglia dire approvare. «Non si può prescindere dall’Italia» ha ammonito l’altro giorno il presidente Sergio Mattarella. Lo diceva a Bruxelles e anche a Giorgia Meloni, ma la partita è iniziata e l’azzardo è tanto. Von der Leyen può trovare i voti che le servono tra i 52 eletti nei Verdi. Le piacerebbe assai di più avere come alleata Meloni. Che quindi non deve esagerare. Come ha fatto Matteo Salvini che, a Consiglio ancora riunito, ha parlato di “colpo di stato” di Ursula von der Leyen. Il voto francese saprà dare le ulteriori e necessarie indicazioni sul da farsi.


La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.
Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  
Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.
ABBONATI AL QUOTIDIANO DEL SUD CLICCANDO QUI.

Share

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

Share
Share
EDICOLA DIGITALE