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L’attuazione dell’Autonomia differenziata rischia di scatenare una tempesta dagli effetti imprevedibili sul debito pubblico
L’Italia si avvia a sfondare quest’anno il tetto dei 3.000 miliardi di stock di debito pubblico accumulato. Dopo una lunga fase di controllo attento sulla dinamica dell’indebitamento, negli anni successivi alla pandemia sono stati sospesi i parametri europei di Maastricht, ora sostituiti dal nuovo patto di stabilità.
Il debito pubblico dell’Italia per il 2023 è stato, in rapporto al Pil, pari al 139,8%, molto più elevato rispetto quello di Francia (109,6%), Spagna (107,5%) e Germania (64,8%), Salirà al 140,6% nel 2024, fino a raggiungere il 140,9% nel 2025. I maggior detentori di debito pubblico italiano rimarranno le istituzioni finanziarie e resto del mondo. Ma continuerà ad aumentare la quota detenuta da “famiglie e istituzioni no profit”.
La gestione del debito pubblico è certamente una delle questioni più gravi che limitano, da molto tempo ormai, i margini di manovra delle politiche economiche. A cominciare dall’onere consistente per il servizio del debito. Tenere sotto controllo le dinamiche della finanza pubblica ha rappresentato, dagli anni Ottanta del secolo passato, una delle questioni dominanti che hanno condizionato il profilo dello sviluppo, inducendo politiche recessive. Con il novo patto di stabilità la tregua pandemica sul debito pubblico è finita.
L’autonomia regionale differenziata decide consapevolmente di non sfiorare nemmeno questo macigno, e lascia intatta alla responsabilità dello Stato centrale il governo del debito. Mentre vengono sfilati i poteri statuali uno ad uno per assegnarli alle istituzioni regionali, al trasferimento dei poteri non corrisponde alcuna assunzione di responsabilità da parte degli enti territoriali.
Le regioni a statuto ordinario assumeranno compiti sempre più estesi di allocazione delle risorse pubbliche. Mentre sia lo stock del debito che si è finora formato, ma nemmeno quello che si continuerà a formare da ora in avanti, comporterà alcuna sanzione per le istituzioni territoriali che contribuiranno a peggiorare la voragine nella quale siamo immersi.
Gli economisti sostengono a ragione che non esistono pasti gratis. Ogni volta che qualche soggetto agisce in modo parassitario per ricavarne un vantaggio senza sforzo, la società nel suo insieme ne pagherà duramente le conseguenze in una fase successiva. Per quanto riguarda la finanza pubblica, la riforma dell’autonomia differenziata opera in modo totalmente asimmetrico. Alle Regioni potere e risorse, allo Stato debiti e conseguenze delle diseguaglianze.
Non è una novità. Come è noto, la gestione del servizio sanitario nazionale è trasferita da tempo ormai nella sua pienezza alle Regioni. Regioni che hanno amministrato risorse definite a livello nazionale, che derivavano, oltre che dalle risorse derivanti dalla tassazione, anche da porzioni di debito pubblico. Le Regioni hanno aggiunto il loro carico ulteriore, con formazione di ulteriore debito sanitario, spesso anche fuori bilancio. Al debito primario generato dalle decisioni dello Stato si è aggiunto un debito secondario attivato delle Regioni.
Tutto lascia presagire che – con la riforma della autonomia differenziata – la gestione in competenza esclusiva di un numero esteso di materie rilevanti da parte delle Regioni determinerà ulteriori e consistenti buchi di bilancio che renderanno ancora più difficile tenere sotto controllo la finanza pubblica, come ha fatto notare la Commissione dell’Unione Europea nei suoi ultimi due rapporti sul nostro Paese, manifestando perplessità proprio sulla riforma della autonomia differenziata.
Tutte le regioni ordinarie, dal 1970, hanno accumulato debiti. Sono ‘cicale’ come lo Stato centrale. Sono tutt’altro che virtuose ‘formiche’, come pretenderebbero di accreditarsi i patrocinatori del regionalismo differenziato. Partendo dai dati e dagli elementi ricavabili dalle analisi della Banca d’Italia, le Regioni, pur presentando dati eterogenei, sono tutte caratterizzate dalla finanza allegra.
Al 31 dicembre 2023 il debito consolidato di Comuni, Regioni, Province e altri Enti è 84,2 miliardi di euro dagli 87,6 miliardi dell’anno precedente. L’indebitamento dei Comuni è collegato direttamente alla realizzazione o ristrutturazione di opere pubbliche e infrastrutture. Le Città metropolitane, le Province e le Regioni possono quindi indebitarsi, chiedendo prestiti o accendendo mutui, ma solo per gli investimenti e la costruzione di rilevanti opere pubbliche. Per legge è infatti vietato l’indebitamento pubblico degli enti locali per le spese correnti, come quelle relative al pagamento degli stipendi dei dipendenti della pubblica amministrazione a o all’erogazione dei servizi ordinari nei confronti della cittadinanza.
Tra le regioni italiane è il Lazio ad avere il debito consolidato maggiore, 16,3 miliardi: il secondo posto è della Lombardia con 10,4 miliardi. Poi c’è la Campania con 9,7 miliardi. Se si considera però il debito complessivo il Lazio raggiunge la cifra di 22 miliardi di euro, includendo in questa cifra anche le passività della Regione verso “se stessa” ovvero verso Enti che appartengono a settori secondari, e meno immediatamente visibili, delle Amministrazioni pubbliche.
Nel caso della Lombardia, la differenza tra il debito consolidato e quello complessivo è quasi nulla. Il primo infatti ammonta a 10,4 miliardi, il secondo a 10,5. La differenza è quindi di “solo” 100 milioni di euro. La ragione, come spiegano gli economisti della Banca d’Italia, è da ricercare nella “solidità” complessiva degli enti territoriali lombardi.
La Campania condivide con il Lazio il primato dei debiti interni al settore pubblico. Infatti la passività degli Enti campani verso le altre Amministrazioni pubbliche è di 15 miliardi, a fronte di un debito consolidato nettamente inferiore, 9,8 miliardi. Come per il Lazio anche per la Campania il problema sono anni di cattiva gestione delle finanze della sanità. La Regione infatti è stata commissariata per la sanità dal 2007 al 2020, in questi anni i conti della regione sono stati risanati per un totale di 9 miliardi.
Le cifre sono indicate al condizionale perché difficili da reperire. Poi non collimano mai, probabilmente anche per le diverse metodologie di calcolo. Insomma, i debiti regionali sono tanti ma nessuno sa esattamente quanti. Del resto il debitore, si sa, disdegna l’apparire, e piuttosto decanta le virtù della apparente parsimonia.
Ad ogni buon conto il punto decisivo da sottolineare è il seguente: l’unico campo di attività nel quale le Regioni hanno mostrato all’unisono capacità “realizzative” consiste indiscutibilmente nella “produzione” di debiti. Con tali precedenti, aspettarsi sostanziosi incrementi di “produttività” nello specifico campo dell’indebitamento sarebbe inevitabile se l’improvvida autonomia differenziata dovesse realizzarsi in un’Italia così ridotta a staterelli preunitari.
E tuttavia, parlando più in generale, ogni governo della Repubblica, non meno delle Regioni, passa al governo successivo il debito pubblico, alla stregua degli atleti con il “testimone” nelle staffette. Anche quando dichiarato, il proponimento di ridurlo resta in genere un pio desiderio. Quasi che fosse un’eredità preziosa, il debito viene trasmesso intatto, o accresciuto, ai successori.
Liberarsi dai debiti ha smesso d’essere una virtù pubblica. Il popolo non se ne preoccupa. I governanti temono il giudizio della comunità internazionale, che potrebbe indurre i creditori nazionali e stranieri a ritirare le cambiali. Se la situazione permane tranquilla, il profilo debitorio incrementa. La ricchezza annuale prodotta dagli italiani non copre il debito, che cresce per gli interessi passivi e il deficit del bilancio.
Non pare sicuro che il debito iscritto nei documenti ufficiali sia tutto il debito reale: di tanto in tanto sputano, soprattutto nelle amministrazioni locali, debiti fuori bilancio. Nelle pieghe di un enorme stock di debito, di tanto in tanto si annidano ulteriori partite che non sono state contabilizzate secondo il loro reale valore. Il governante che indebita i governati ha sviluppato una straordinaria scaltrezza nell’occultare e minimizzare gli impegni e le passività.
Il Paese galleggia sopra un oceano di debiti, mentre, stentando a crescere, deperisce organicamente. Ai debiti contratti devono essere addizionati i debiti attesi, causati dalle leggi di spesa, specie previdenziali ed assistenziali. La speranza di evitare il fallimento poggia sulla crescita economica e la vigilanza europea: l’una è aleatoria come il destino degli individui e dei popoli; l’altra comporta penalità che, come tutte le sanzioni, non sempre cambiano le traiettorie della storia.
L’Italia continua ad avanzare incurante tra i debiti che la sovrastano. Un colpettino di tosse può scatenare la valanga che travolgerebbe entrambi. L’autonomia regionale differenziata somiglia proprio al battito d’ali di una farfalla in grado di determinare una tempesta di proporzioni imprevedibili. Aumenta il grado di arbitrio nella allocazione delle risorse pubbliche, ed induce a comportamenti irresponsabili. Lo stock enorme di debito pubblico che ereditiamo dalle scelte dei passati decenni rende molto più pericolosa questa sperimentazione.
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Nel 2001 in Costituzione venne prevista non solo la possibilità di concedere alle regioni ordinarie, la c.d. autonomia differenziata, ma anche l’obbligo per lo Stato di determinare i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (c.d. LEP).
Si obietta che garantire i LEP sia solo una illusione, in quanto lo Stato non ha abbastanza risorse per finanziarli tutti. Ma così dicendo, non ci si accorge che la ufficiale determinazione dei livelli essenziali in un provvedimento normativo, pur se non ancora accompagnata dai correlati costi e fabbisogni standard (art. 1, comma 795 della legge 197 del 2022) o in attesa dello stanziamento delle necessarie risorse (art. 4, comma 1, secondo periodo della legge 86 del 2024.) certamente ritarderebbe l’attribuzione dell’autonomia differenziata, ma salvaguarderebbe al tempo stesso il necessario presupposto per garantire i diritti civili e sociali a quanti abitano in Italia.
Nell’affermare che “è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio [dell’ente pubblico], e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”, la Corte costituzionale (sentenza n. 275/2016, paragrafo 11 del considerato in diritto), aveva già prudentemente, ma decisamente aperto alla possibilità di azionare un proprio diritto dinanzi al Giudice, attenuando così quel “condizionamento finanziario” che lo avrebbe reso pura teoria.
In quella decisione si parlava di diritto allo studio e all’educazione degli alunni disabili, ma nulla impedisce che il principio si estenda anche agli altri diritti, come avvenuto con la sentenza del Consiglio di Stato n. 3297 del 2016 (paragrafi 14.1, 20 e 20.1) in tema di salute.
I LEP dettati da un provvedimento legislativo – anche se non ancora finanziati – potranno divenire: per l’Esecutivo un impegnativo promemoria per oculate future scelte di bilancio, per il Legislatore lo strumento di controllo nei confronti di attuale e successivi governi, per noi tutti la leva da azionare in Tribunale per il riconoscimento, in tempi a volte lunghi per il singolo, ma sempre realizzabili per la collettività, dei propri diritti.
Nel 2001 in Costituzione venne prevista non solo la possibilità di concedere alle regioni ordinarie, la c.d. autonomia differenziata, ma anche l’obbligo per lo Stato di determinare i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (c.d. LEP).
Si obietta che garantire i LEP sia solo una illusione, in quanto lo Stato non ha abbastanza risorse per finanziarli tutti.
Ma così dicendo, non ci si accorge che la ufficiale determinazione dei livelli essenziali in un provvedimento normativo, pur se non ancora accompagnata dai correlati costi e fabbisogni standard (art. 1, comma 795 della legge 197 del 2022) o in attesa dello stanziamento delle necessarie risorse (art. 4, comma 1, secondo periodo della legge 86 del 2024.) certamente ritarderebbe l’attribuzione dell’autonomia differenziata, ma salvaguarderebbe al tempo stesso il necessario presupposto per garantire i diritti civili e sociali a quanti abitano in Italia.
Nell’affermare che “è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio [dell’ente pubblico], e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”, la Corte costituzionale (sentenza n. 275/2016, paragrafo 11 del considerato in diritto), aveva già prudentemente, ma decisamente aperto alla possibilità di azionare un proprio diritto dinanzi al Giudice, attenuando così quel “condizionamento finanziario” che lo avrebbe reso pura teoria.
In quella decisione si parlava di diritto allo studio e all’educazione degli alunni disabili, ma nulla impedisce che il principio si estenda anche agli altri diritti, come avvenuto con la sentenza del Consiglio di Stato n. 3297 del 2016 (paragrafi 14.1, 20 e 20.1) in tema di salute.
I LEP dettati da un provvedimento legislativo – anche se non ancora finanziati – potranno divenire: per l’Esecutivo un impegnativo promemoria per oculate future scelte di bilancio, per il Legislatore lo strumento di controllo nei confronti di attuale e successivi governi, per noi tutti la leva da azionare in Tribunale per il riconoscimento, in tempi a volte lunghi per il singolo, ma sempre realizzabili per la collettività, dei propri diritti.