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Il Ddl Calderoli prevede il passaggio alle Regioni di molte funzioni in materia economica e con l’autonomia si rischia la fuga delle imprese dal Sud
La devoluzione di poteri dal centro ai territori regionali riguarda tre blocchi differenti di disciplina normativa: i diritti dei cittadini, i poteri delle amministrazioni pubbliche, i diritti delle imprese. Mentre sui primi due temi si parla molto, la terza questione resta ancora in un cono d’ombra. Eppure più della metà – 13 su 23 – delle materie che formano oggetto della autonomia differenziata, riguardano i diritti delle imprese.
Si tratta di commercio con l’estero, tutela e sicurezza del lavoro, professioni, ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi, alimentazione, governo del territorio, porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, produzione, trasporto a distribuzione nazionale dell’energia, previdenza complementare ed integrativa, casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale, enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.
Non prendiamo in considerazione altre materie che determinano un impatto indiretto sulle aziende. Tuttavia, la devoluzione di due di queste attività, che stanno nel perimetro della gestione pubblica, vale a dire istruzione e sanità, avranno conseguenze molto rilevanti sulle aziende, non solo per i riflessi indiretti derivanti dalla qualità dei servizi pubblici erogati, ma soprattutto per i cambiamenti che si potranno determinare in materia di contrattazione collettiva nazionale di lavoro. L’introduzione dell’autonomia differenziata potrebbe avere diverse implicazioni sulla concorrenza tra aziende situate in territori diversi. Le nuove Regioni autonome potrebbero competere per attirare investimenti e risorse: se si offrissero incentivi fiscali o agevolazioni per le imprese, quei territori potrebbero diventare più attraenti per gli investitori.
Le Regioni potrebbero inoltre emanare regolamenti e leggi diverse in settori chiave come ambiente, lavoro e tassazione. Le aziende dovranno adattarsi a queste differenze e navigare tra le diverse normative. Ciò potrebbe comportare costi aggiuntivi per la conformità e la gestione delle operazioni in più sedi. Le Regioni autonome potrebbero competere anche per attirare talenti e risorse umane. Le aziende dovranno considerare la disponibilità di manodopera qualificata, infrastrutture e servizi nei diversi territori regionali. Infine, si potranno determinare impatti sulla catena di approvvigionamento: le aziende con filiali o fornitori in diverse Regioni dovranno gestire la catena di approvvigionamento in modo efficiente.
Potrebbero esserci differenze nei tempi di consegna, costi di trasporto e logistica. Già le imprese con un solo stabilimento, o con unità produttive nella stessa Regione, dovranno fronteggiare uno scenario normativo a geometria variabile, e, per operare nell’Italia della autonomia differenziata, saranno costrette a dedicare energie e risorse umane per padroneggiare un contesto istituzionale certamente più instabile ed incerto. Ma l’articolazione del modello produttivo nazionale è caratterizzata anche da una parte di aziende che operano con unità locali in diverse Regioni.
Le imprese plurilocalizzate nel territorio del nostro Paese sono una realtà più significativa di quanto non si possa immaginare. Sulla base dell’ultimo Censimento Istat 2021 sulle attività industriali del nostro Paese, parliamo di oltre 560.000 unità locali presenti in più Regioni, di cui il 26,9% (151.048 unità locali) è insediato in Regioni differenti rispetto al territorio nel quale è collocate la sede principale.
Ancor più interessante è analizzare le differenze che emergono nella geografia delle imprese plurilocalizzate tra Centro-Nord e Sud. Umbria, Emilia Romagna e Lombardia registrano l’incidenza maggiore di presenze di unità locali in altre Regioni, con rispettivamente il 35,2%, il 34,1% ed il 31,9%. Nella sola Lombardia sono 48.966 le unità locali insediate in regioni differenti rispetto alla sede principale della azienda: si tratta del 29,1% del totale della realtà italiana. Di converso, sono le regioni meridionali a registrare, nell’ambito delle imprese plurilocalizzate, una maggiore concentrazione delle unità locali all’interno della Regioni nelle quale è collocata la sede principale: le fabbriche presenti in altre Regioni sono in Sardegna solo il 2,4%, in Sicilia il 4,8%, in Calabria l’8,8%.
Se poi leggiamo lo stesso fenomeno non in termini di numeri delle unità locali ma di addetti, la rilevanza del fenomeno assume ancora maggiore evidenza: parliamo di oltre 2 milioni di dipendenti (precisamente 2.043.572) concentrati nelle unità locali non collocate nella Regione della sede principale delle aziende. Per la sola Lombardia si tratta di 764.060 addetti (37,4% del totale nazionale). Il Lazio si colloca al secondo posto come numerosità degli addetti operativi nella stessa azienda, ma non nella sede principale: si tratta di 384.576 dipendenti (il 18,8% del totale nazionale). Conta in questo caso in particolare la presenza delle grandi imprese pubbliche che storicamente hanno la propria sede principale nella Capitale, con una articolazione territoriale molto ramificata lungo l’intera Penisola.
Anche in questo caso le aziende plurilocalizzate meridionali registrano una presenza molto meno significativa di addetti in unità locali presenti in Regioni diverse dalla sede principale dell’azienda. La Campania è la Regione meridionale che presenta il valore assoluto più elevato: 62.053 addetti in unità operative fuori dal territorio della sede principale.
In termini di fatturato delle aziende plurilocalizzate, a livello italiano il totale prodotto da queste imprese su base annua è pari a 1,8 miliardi, con poco meno di 1,3 miliardi prodotti comunque nella Regione in cui è collocata la sede principale. Più di mezzo miliardo di euro, poco meno del 30% del totale, viene quindi prodotto nelle unità locali collocate nelle altre Regioni. Si conferma anche in questo caso il dato che è l’economia meridionale a conoscere un valore molto inferiore di aziende che producono fatturato fuori dalla Regione principale nella quale operano.
Cosa potrà accadere alle aziende plurilocalizzate con l’autonomia differenziata? Non è improbabile immaginare che le aziende del Nord, quelle più numerose in tale segmento, avranno la tentazione di tornare a casa, se la legislazione regionale del Settentrione offrirà normative compensative, tali da annullare i vantaggi localizzativi che hanno portato all’insediamento in altri territori. Anche in questo caso il rischio principale lo corre il Mezzogiorno.
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