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L’autonomia favorirà le “emigrazioni scolastiche”, non più limitate agli studi universitari

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Con l’autonomia l’istruzione è a rischio: ecco come il decreto spacca Italia può rovinare il futuro dei giovani del Sud e i loro studi


L’istruzione è uno dei fattori strategici primari per la competitività nelle società contemporanee. Secondo quanto riporta un recente studio realizzato dalla Banca d’Italia, a livello aggregato si stima che un anno di istruzione in più per la media dei lavoratori comporti un aumento del prodotto pro capite che si avvicina al 5 per cento e che il rendimento sociale dell’istruzione sia all’incirca pari al 10 per cento.
Con l’autonomia differenziata, il baricentro decisionale è destinato a passare dalle istituzioni centrali alle Regioni. Cosa potrà accadere con questo diverso spostamento di asse nelle decisioni pubbliche?

È CALATA LA SPESA PUBBLICA PER L’ISTRUZIONE

Nel corso del ventennio 2000-2020 la spesa pubblica per l’istruzione è stata ridotta. Secondo le analisi effettuate dalla Agenzia per la Coesione sui conti pubblici territoriali, in termini di spesa pubblica pro capite, nel 2020 si è registrato, un valore di 790,9 euro per abitante: il dato è inferiore alla media dell’intero ventennio, e di circa 100 euro sotto quanto registrato nel 2000. Complessivamente, stiamo disinvestendo da diverso tempo sulla formazione e sulla cultura.

Se poi si considera la spesa dedicata all’istruzione in percentuale rispetto alla spesa riferita al complesso dei settori di attività in cui si articola l’intervento pubblico, nel ventennio questa ha rappresentato in media il 5,7 per cento della spesa complessiva totale del Settore pubblico allargato, valore che nel 2020 non è andato molto oltre il 5 per cento.
Dei 47 miliardi spesi nel 2020, il 15% ha avuto origine in Lombardia, seguita a distanza da Campania (10,3%), Lazio (9,7%) e Sicilia (8,6%). Nello stesso anno, le due Province autonome (Bolzano e Trento) e la Valle d’Aosta presentano valori pro capite molto più elevati rispetto alla media nazionale (rispettivamente 1.485, 1.224 e 1.257 euro).

A distanza seguono la Basilicata (928 euro) e la Calabria (879 euro), mentre all’opposto si collocano la Lombardia, il Veneto e la Liguria (che ha registrato il valore minimo, pari a 675 euro).
I valori si ravvicinano di molto tra regioni meridionali e regioni settentrionali se si effettua la ponderazione pro capite non sulla popolazione, ma sugli alunni. E il differenziale dipende essenzialmente da due fattori: una età media più alta degli insegnanti, perché ritornano nelle regioni di origine dopo aver maturato anzianità nelle regioni del Nord, e una maggiore dispersione territoriale che comporta maggiori oneri di gestione per diseconomie di scala.

Per la generalità dei territori si riscontra una dinamica di disinvestimento nell’ambito della spesa pubblica per l’istruzione: nel 2020 la Provincia autonoma di Bolzano e la Campania occupavano le prime posizioni nel ranking dei territori con il maggior livello di incidenza della spesa settoriale sul totale della spesa pubblica (poco più del 7%, a fronte di una media ventennale di oltre l’8%), seguite da Calabria (6,8%), Sicilia (6,3%) e Provincia autonoma di Trento (6%).
Ad allocare relativamente “meno” in istruzione rispetto al complesso della spesa pubblica sono state invece la Liguria (3,7%), il Lazio (3,8%) e la Lombardia (4,3%).

Oggi la spesa per istruzione è in prevalenza di responsabilità dello Stato. Nel periodo tra il 2000 e il 2020 le Amministrazioni centrali hanno effettuato, in media, circa i due terzi della spesa complessiva.
Il cruciale ruolo svolto dallo Stato nel finanziamento della spesa totale è ancora più rilevante nelle regioni del Mezzogiorno: dall’analisi territoriale di composizione della spesa per soggetti erogatori spiccano in particolare Calabria, Puglia e Basilicata, tutte realtà nelle quali, nel 2020, il peso delle Amministrazioni centrali ha superato l’80%.
Di contro, tra le regioni a statuto ordinario, essa è risultata inferiore alla media italiana in Emilia Romagna (64,3%), Toscana (65,9%), Lombardia e Umbria (68,6%).

Le spese di natura corrente per il personale e per l’acquisto di beni e servizi costituiscono gran parte della spesa di settore: in media, tra il 2000 e il 2020, le prime hanno assorbito circa il 69% mentre le seconde poco meno del 13% del totale di comparto. Nel 2020, 32,7 miliardi di euro hanno finanziato stipendi e contributi del personale scolastico, il 18% in meno rispetto all’anno di picco di tale tipologia di spese, cioè il 2006.

EDILIZIA SCOLASTICA SUD IN ESTREMO SVANTAGGIO

A far la differenza non è solo la spesa corrente. La dotazione di infrastrutture scolastiche, al pari degli altri input della funzione istruzione, può condizionare gli esiti dei percorsi di apprendimento, in termini di rendimento e di continuità dei percorsi scolastici.
Le infrastrutture scolastiche, come efficacemente riporta un recente rapporto della Banca Mondiale, sono “un maestro terzo” che svolge un ruolo non trascurabile nei processi di apprendimento.

Se si considera la media dei primi due decenni degli anni duemila, in modo da rendere trascurabile l’impatto di eventuali differenze territoriali nella capacità di spendere le risorse disponibili, si osserva, sulla base del recente studio di Banca d’Italia, che le Province autonome di Trento e di Bolzano hanno speso ogni anno risorse pari a oltre il quadruplo del valore nazionale (espresse in rapporto alla popolazione studentesca).
In Regioni quali la Campania, la Sicilia e la Puglia la spesa annua è stata invece inferiore del 40 per cento rispetto al dato italiano.
Rispetto al Mezzogiorno, un alunno della scuola primaria ha a disposizione una superficie scolastica del 60 per cento più elevata se residente nel Nord Est e ha una probabilità più che doppia di frequentare una struttura dotata di mensa se residente nel Nord Ovest.

Uno studio curato nel 2022 dall’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica consente di analizzare il quadro variegato sull’edilizia scolastica. Le scuole del Mezzogiorno (Sud e Isole) hanno una minor dotazione di mense e palestre rispetto a quelle del Centro e del Nord. Per le mense 19% contro 38%, mentre per le palestre 29% contro 39%.
Un grande problema rimane l’età delle scuole, soprattutto al Nord, dove poco più del 60 per cento è stato costruito prima del 1975. Ma non va trascurato il fatto che nel Mezzogiorno solo circa il 30% delle scuole possiede un certificato di agibilità.

Rispetto ai livelli medio-bassi nella dotazione di infrastrutture scolastiche, il grado di facilità con cui uno studente può raggiungere la propria scuola tramite mezzi pubblici è migliore, anche se occorre distinguere tra mezzi urbani e inter-urbani. Infatti, più dell’80% degli edifici scolastici nazionali è “raggiungibile” dal trasporto pubblico urbano, contro una media di poco meno del 50% dei mezzi interurbani.
A livello di macro-area, il Mezzogiorno ha le scuole con la disponibilità più bassa sia per i trasporti urbani (78%), sia per gli inter-urbani (40%), anche se convivono realtà differenti: la regione più virtuosa d’Italia è infatti l’Abruzzo, dove quasi il 100% delle strutture scolastiche può essere raggiunta tramite trasporto pubblico urbano e quasi il 70% per mezzo di un trasporto interurbano; all’opposto, c’è la Campania con una disponibilità rispettivamente pari al 63% e al 31%.

La vetustà del patrimonio edilizio scolastico italiano è uno dei punti critici da affrontare. Il 57 % delle scuole in Italia ha quasi 50 anni. La porzione maggiore di edifici costruiti prima del 1975 è nel Nord. Il Molise vanta invece la quota più alta di edifici con meno di 50 anni (63%) e costruiti dal 2009 ad oggi (18%).
Anche se le regioni del Nord hanno gli edifici scolastici mediamente più vecchi, è il Sud ad avere la percentuale minore di scuole con certificato di agibilità (solo il 32% contro il 52% del Nord) e con libretto di omologazione dell’impianto termico (il 38% contro il 51% del Nord).
Inoltre, circa un quinto degli edifici scolastici nel Mezzogiorno non ha un piano di evacuazione a norma. Sotto il profilo territoriale, oltre il 30% delle situazioni di maggiore criticità è localizzato in Campania, in particolare nella provincia di Napoli, che da sola incide per un quinto dei casi rilevati a livello nazionale.

COSA CAMBIERÀ PER LA SCUOLA CON L’AUTONOMIA: I DANNI AGLI STUDI DEI GIOVANI DEL SUD

Lo scenario dell’istruzione è destinato a modificarsi radicalmente con l’autonomia differenziata: non solo perché la spesa pubblica diventerà da statale prevalentemente regionale, ma perché cambieranno profondamente i rapporti relativi tra i territori.
Mentre oggi per la spesa corrente c’è una sostanziale equivalenza tra le regioni italiane, con un lieve vantaggio per le regioni meridionali dovuto alla età media più elevata degli insegnanti e alla maggiore dispersione territoriale, nello scenario dell’autonomia differenziata cambia tutto.
Si apre la prospettiva di pagare la contrattazione di secondo livello in modo differenziato, e questo sarà evidentemente possibile solo per le Regioni con maggiori dotazioni finanziarie. Da questo punto di attacco partirà un processo di forte differenziazione nella qualità dell’educazione scolastica, mentre si aprirà ancor di più la prospettiva della privatizzazione della scuola.

Come è già accaduto per la sanità, la territorializzazione dei servizi essenziali sarà un’occasione per la apertura di spazi crescenti alla partecipazione e alla gestione dei privati, rendendo meno paritario l’accesso ai servizi e garantendone l’esigibilità sempre più in base alla disponibilità di un reddito medio-alto, quindi con un criterio inverso rispetto a un orientamento in base al quale le borse di studio per gli allievi provenienti da famiglie meno abbienti garantivano l’accessibilità alla formazione superiore.
Accadrà, insomma, alle spese per l’istruzione quello che è successo alle spese per l’edilizia scolastica, che già oggi presentano un fossato grave di separazione tra le regioni settentrionali e il resto del Paese, con un Mezzogiorno che in particolare si troverà in una condizione di sempre maggiore svantaggio.

Al turismo sanitario, già in voga da diversi decenni, si aggiungerà un più vivace turismo scolastico, non più solo limitato, come è oggi, all’istruzione universitaria. Ma la concorrenza, quando si tratta di beni pubblici, apre voragini di inefficienza e di ingiustizia,per tutti i cittadini, salvo che per una minoranza di privilegiati. A vincere sarà solamente la nomenklatura che gestirà maggiore potere. È questo uno dei disastri della autonomia differenziata.


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