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Giorgia Meloni, presidente del Consiglio

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DA QUALCHE giorno in Transatlantico più di un parlamentare evoca il ritorno dei tecnici al Governo Meloni. Perché, ripetono all’unisono gli interpellati, rigorosamente a taccuini, «tutti i segnali vanno in questa direzione: l’aumento dello spread, la sfiducia degli investitori, gli scontri con la Germania sui migranti, la mancata approvazione del Mes…». Giorgia Meloni di tecnici non ne vuole sapere, minimizza, e dal vertice EuroMed di Malta se la prende con il centrosinistra, reo di aver messo in giro queste voci: «La sinistra continui a fare la lista dei ministri del governo dei tecnici – dice la Meloni – che noi intanto governiamo. Non vedo questo problema, vedo questa speranza da parte dei soliti noti, mi fa sorridere. Voglio tranquillizzare: il governo sta bene la situazione è complessa l’abbiamo maneggiata con serietà l’anno scorso, e anche quest’anno. Lo Spread che lanciate come se fosse la fine del governo Meloni stava adesso a 192 punti, a ottobre scorso 250 durante l’anno precedente al nuovo governo è stato più alto e i titoli non li ho visti». L’inquilina di Palazzo Chigi ritiene che l’Italia sia «una nazione solida» che «ha una previsione di crescita superiore alla media europea per il prossimo anno».

Insomma, tutto chiuso. Eppure non si direbbe. Perché il sentiment di Camera e Senato va in altra direzione. Alle 10 del mattino Montecitorio è praticamente deserta e i pochi presenti fanno gli scongiuri: «Sarebbe la fine per noi tutti». Ecco, lo spread in questo venerdì di fine settembre sorvola quota 190, sale e scende, e concluderà la giornata a quota 195. Il differenziale tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi è salito molto più rapidamente di quanto non avesse previsto, solo pochi giorni fa, Morgan Stanley. La banca d’affari aveva preconizzato uno spread a 200 nel mese di dicembre. Sono invece bastati quattro giorni invece di tre mesi, segno che le fibrillazioni sono maggiori di quanto avessero previsto gli investitori. Ragion per cui nessuno esclude più che un governo simil Draghi potrebbe avere la luce se la situazione dovesse peggiorare.

La politica è già pronta. Il più lesto di tutti è come al solito Matteo Renzi: «Meloni – scrive l’ex premier nella consueta e-news – si conferma una bravissima influencer ma non sta facendo la Premier. Non risolve un problema. E cresce il nervosismo sui mercati finanziari e in quelli rionali: cresce lo spread ma soprattutto cresce la delusione verso una leader che aveva promesso di cambiare tutto e sta solo cambiando idea lei». Il senso del ragionamento del leader di Italia viva – che si è messo in testa di voler scalare Forza Italia, dopo la scomparsa del Cavaliere – è che questo esecutivo non è credibile e i fatti lo stanno dimostrando.

Insomma qualcosa si muove. A Roma, ma soprattutto a Bruxelles. Ursula von der Layen ha chiesto a Mario Draghi di preparare un rapporto sulla competitività. Un ulteriore segnale? Forse. Certo è che dalle parti di Palazzo Chigi tutto questo non è stato affatto gradito. Non a caso le truppe di Meloni sono uscite in batteria per allontanare questo scenario, tecnici compresi. Il primo è stato Tommaso Foti, capogruppo di Fd’I a Montecitorio: «Non si può non constatare l’ipocrisia con cui le opposizioni – sempre più schierate contro l’Italia – alimentano la narrazione di uno «spread che vola», se non altro perché sono le stesse che nulla hanno detto quando, con Mario Draghi presidente del Consiglio e il Pd al governo, lo spread toccò 250 punti, il 20% in più di oggi». Segue Marco Osnato, presidente meloniano della commissione Finanze alla Camera: «Gli attacchi che arrivano dalla sinistra e dai suoi giornali sono ridicoli. Lo spread a 200 va tenuto sotto controllo ma non è un indicatore di crisi e non è certo l’opposizione di oggi che può cavalcare l’onda della tensione dei mercati, in considerazione del fatto che quando è stata al governo il differenziale tra Btb e Bund è stato anche superiore a quello di questi giorni, senza che nessuno evocasse gli scenari allarmistici che alcuni quotidiani inventano oggi». Tutte dichiarazioni utili a ridimensionare le indiscrezioni che sono uscite nelle ultime ore. Lo spettro del governo tecnico deve rimanere tale, è il refrain nel cerchio ristretto dell’inquilina di Palazzo Chigi.

Anche Federico Freni, sottosegretario legista all’Economia, respinge lo spettro del ritorno dei tecnici: «Mi rendo conto che talvolta l’assenza di notizie o la noia delle notizie possa creare notizie, però 200 punti di spread con un calo a 194-196, non è affatto un tasso preoccupante. Noi avevamo ad aprile e maggio di quest’anno uno spread più alto. Io non mi preoccupo minimamente, non siamo nel 2011, non c’è assolutamente il rischio reazioni dei mercati, anche perché l’Italia è considerata oggi un Paese molto più affidabile di quanto non lo fosse considerata in altri tempi». Di sicuro non aiutano i rapporti non certo idilliaci con le altre cancellerie europee: la lettera di Meloni a Scholz sulle Ong, la fuga di Piantedosi dalla riunione dei ministri Ue che di fatto ha bloccato il nuovo patto sulle migrazioni, il tira e molla sul Mes. Sono tutti i nodi che allontanano il Belpaese da Bruxelles.

In questo contesto tutti i partiti non estremi si preparano all’evenienza del governo tecnico. Renzi, per dire, aspetta al varco la coalizione di governo. E lo stesso seppur in forma lo caldeggia il leader di Azione, Carlo Calenda. E il Pd? Negli ultimi dieci i dirigenti del Nazareno non hanno mai fatto mancare il loro sostegno ai governi di tecnici e agli esecutivi di salute pubblica. Chi direbbe dunque no davanti a uno scenario di esecutivo tecnico? La sinistra capitanata da Andrea Orlando e Peppe Provenzano si sfilerebbe. Almeno così ripete l’area Labour in queste ore. Dopodiché tutto può succedere. E lo stesso farebbe Elly Schlein. Ma il correntone di Dario Franceschini avrebbe di sicuro un altro approccio. E cosa dire di Forza Italia? Il partito più europeista della coalizione di governo potrebbe non rispondere alla chiamata? Domande a cui nessuno sa rispondere oggi. Domani chissà…


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