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Di fronte a due orrendi delitti di donne, si riflette sulla superficialità con cui si trattano concetti come pentimento e perdono, inadeguati a narrare il dramma e onorare le vittime.


Forse è arrivato il momento di riflettere, cronisti e lettori, sul linguaggio e il pensiero che circondano e accompagnano il delitto e il castigo. Abbiamo il dovere di farlo, in un mondo che ci costringe a riportare, in una sola giornata, non uno ma due omicidi tanto simili fra loro quanto orrendi nel contenuto e nella forma. Ilaria Sula, 22 anni, accoltellata e smembrata dal fidanzato a Roma, in casa di lui. Sara Campanella, 22 anni, ammazzata per strada a Messina da un collega di studi che la perseguitava. “Chiedo scusa”, titolano molti giornali riportando una dichiarazione di Mark Samson, l’assassino di Roma.

“Non ha mostrato alcun segno di resipiscenza”, scrive il Gip a proposito di Stefano Argentino, quello che ha ammazzato Sara. E il suo avvocato precisa che durante l’interrogatorio il giovane “non ha spiegato cosa lo ha spinto ad aggredire la ragazza”.

DELITTI DI DONNE, L’INTERROGATIVO DEL CRONISTA: PRIMA DI RACCONTARE, INTERROGARE SE STESSI

Fermi tutti, per favore. Fermi e zitti. Chiudete gli occhi e prendete fiato. Chi è costretto, come noi giornalisti, a descrivere un delitto, ha il dovere di interrogare se stesso, prima ancora di raccontare ai lettori una vicenda che sembra uscita dritta da un film dell’orrore. Un delitto che invece è stato commesso sotto casa nostra, nell’appartamento di un vicino, davanti a un negozio dove andiamo tutti i giorni. E la vittima è quella ragazza che incontravamo in ascensore, quell’amica di nostra figlia: è nostra figlia. Samson, Argentino, Filippo Turetta hanno ucciso nostra figlia, ecco cosa è successo, perché se Ilaria, Sara, Giulia non erano nostre figlie è stato per puro caso, guardate.
Allora, riapriamo gli occhi, facciamo il punto.

Sono anni ormai che il modo di raccontare fatti come questo (sono pur sempre fatti) include, nei giornali e in Tv, quasi obbligatori, i concetti di “perdono”, “pentimento”, “scuse”. Perdono e non perdono, pentimento e non pentimento, scuse e non scuse, sono concetti inclusi nei titoli e nelle domande del giornalista, e trattati come vere e proprie notizie, come se fossero una categoria giudiziaria in sé. Compresa la “resipiscenza” che per chi non lo sapesse si definisce come “riconoscimento del male commesso, dell’errore compiuto, accompagnato da consapevole ravvedimento”.

LA TRADIZIONE CULTURALE E RELIGIOSA DI PENTIMENTO E PERDONO

Il pentimento e il perdono sono nozioni con una importante tradizione culturale e antropologica, e hanno anche, se non bastasse, un preciso retaggio nella dottrina cattolica, cioè in un solido materiale alla base della morale di noi tutti. È ragionevole discuterne, è giusto pensarci, al limite è anche ammissibile che un giudice o un avvocato si mettano a cercare tracce di queste categorie durante un colloquio o un interrogatorio. È deplorevole, invece, che chi ha la grave responsabilità di raccontare questi fatti, cioè il mondo dell’informazione, vada a comprimere in un titolo o in una riga di testo la complessità di questi elementi (comprese le “scuse”).

Raccontare queste storie significa raccontarle a centinaia e migliaia di padri, madri, sorelle e amiche di altre ragazze, che oggi sono vive semplicemente perché non si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato: davvero pensiamo che sia ragionevole includere nella narrazione la domanda “è pentito?” rivolta a un uomo violento con ancora le mani insanguinate? E non è grottesco chiedere “lo perdona?” a un genitore annichilito che sta impazzendo dal dolore?

IL PARAGONE CON IL FILM DELL’ORRORE: CHIEDERE AL MOSTRO SE È PENTITO?

Queste domande, che giornali e giornalisti rivolgono ormai per circostanza a ridosso di casi del genere, e le cui risposte o non risposte sono incluse (a dir poco precocemente) nei titoli del giorno dopo, sono strumenti inadeguati e sciatti, per non dire nocivi, in un contesto ahinoi fin troppo ricorrente nelle nostre cronache. Restiamo nella similitudine di prima, purtroppo adeguata: il film dell’orrore. Chiederemmo mai a Freddy Krueger, il mostro di “Nightmare”, se per caso è pentito? Chiederemmo al dottor Lecter “perché l’ha fatto?”, “vuole scusarsi con le famiglie?”
No. Non ci siamo proprio. Chi racconta ha il dovere di credere nel racconto che sta facendo.

E il trattamento superficiale del delitto è un delitto a sua volta, aggravato dalla proporzione del delitto stesso. Purtroppo ogni volta che una ragazza muore uccisa da un coetaneo, nel nostro mondo si spalanca una voragine di oscurità che non può essere richiusa, proprio come narrazione, dalla cerniera di causa ed effetto, pentimento e perdono, che può funzionare in un giallo televisivo, forse, ma non nella cronaca nera.

LE VITTIME SONO “NOSTRE FIGLIE”: CONDANNARE LA VIOLENZA PER DIFENDERLE LE DONNE DAI DELITTI

Abbiamo il dovere di usare un linguaggio appropriato, di cambiare le nostre domande, e forse il diritto di riflettere, chiudere gli occhi e prendere fiato.
La cronaca nera non tratta di guerre lontane o di imprese sportive: Sara, Ilaria, Giulia, Maria, Eleonora, Cinzia, Sabrina, Giovanna, Cristina, Anna, Lucrezia sono le nostre figlie, le nostre ragazze. Condannare la violenza, in ogni sua forma, è forse il primo passo per difenderle, oggi. Perché queste ragazze, con noi, si trovano proprio ora in una voragine oscura, nella quale ragione e pentimento non sono uno strumento plausibile. Prendiamo fiato, fermiamoci a parlarne, stiamo scrivendo di donne ammazzate, le quali un minuto prima di morire erano convinte, come noi, di avere tutta la vita davanti.

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