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Da Palazzo Chigi la decisione di Meloni che punta a inserire nel decreto Albania il ricorso in Appello contro le ordinanze del Tribunale; per il Quirinale questioni giuridiche “insormontabili”


A data da destinare. Praticamente cancellata. Dicono che Giorgia Meloni abbia maturato la decisione di non fare l’annunciata e attesissima conferenza stampa già domenica sera. Quando ha capito che il decreto Albania sarebbe stato svuotato per questioni giuridiche valutate come “insormontabili” dal Quirinale.

Era rimasta una sottile speranza che si è però spezzata lunedì durante le trattative non semplici e poi fallite tra il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, che è il mr Woolf di Meloni quando le faccende si complicano (magari lo ascoltasse un po’ di più) e il segretario generale del Quirinale Ugo Zampetti. Quando lunedì pomeriggio Meloni suona la campanella del Cdm la decisione è già presa. E del resto, bastava “guardarla in faccia” – ha ammesso chi l’ha vista – per capire il pessimo umore: riunione molto veloce, ministri a mani vuote senza neppure una bozza né un ordine del giorno.
Tutte le energie di Palazzo Chigi sono state concentrate per quattro lunghi giorni sul modo per fare ciò che la premier aveva promesso venerdì quando era ancora in Libano: “Risolverò anche questo problema (nonostante i magistrati e nonostante l’Europa, ndr) e i centri in Albania lavoreranno a pieno regime”.

Ma non è andata così. Nonostante le parole rassicuranti di due ministri come Nordio e Piantedosi: “La lista con i Paesi sicuri è diventata legge dello Stato che i giudici dovranno applicare. Se c’è qualcosa che non condividono potranno al massimo fare ricorso alla Consulta”. Sbagliato perché una legge dello Stato deve comunque sottostare al giudizio della Corte e alle direttive europee. Si chiama, per l’appunto, gerarchia delle fonti. Si chiama, anche, principio della separazione dei poteri, cardine delle democrazie.

Non cambierà nulla, quindi. O molto poco. Comunque è un altro braccio di ferro. Ennesimo flop amplificato dalla propaganda di questi mesi sui centri albanesi. E’ chiaro allora perché la premier ha “rinviato” la conferenza stampa e ha lanciato il solito video messaggio. Non c’entrano gli impegni del vicepremier Tajani, noti da tempo. Sono caduti uno dopo l’altro i motivi per cui l’incontro con i giornalisti era stato convocato da una settimana e confermato nel programma della settimana: il caso Albania non è stato risolto; la legge di Bilancio – motivo originario della convocazione – non è ancora arrivato in Parlamento (era atteso domenica).
Restava in piedi la celebrazione dei due anni di governo. Per cui sono state preparate 49 slide riassuntive dei successi di 24 mesi di Giorgia Meloni a palazzo Chigi. Ma è stato chiaro che, vista la situazione, non una domanda dei giornalisti accreditati in massa avrebbe riguardato il compleanno del governo. Una situazione che sarebbe potuta facilmente sfuggire di mano.

Rinviata, quindi. Più probabile cancellata. Le slide sono state caricate sul sito del governo ad uso e consumo degli appassionati.
Resta il giallo Albania. Su cui le sorprese sono ancora possibili, a dimostrazione del braccio di ferro con il Colle ancora in corso ieri. Il decreto, infatti, non sarebbe composto “solo” dalla lista dei 19 Paesi sicuri dove espellere con procedura accelerata i non aventi diritto (così avevano spiegato i ministri). Nel pomeriggio filtra che nel testo finale potrebbe rientrare dalla finestra qualcosa che era uscito dalla porta il giorno prima. Proprio per la moral suasion del Colle: la norma che prevede il ricorso in Corte d’Appello contro le ordinanze del Tribunale sul trattenimento dei migranti nei centri per il rimpatrio.

Al momento le decisioni dei Tribunali per l’immigrazione possono essere impugnate solo in Cassazione. Il governo vuole questo passaggio in più per complicare la vita ai giudici di primo grado che potranno, anche quando il decreto sarà in vigore, non concedere l’espulsione. Succede da un anno e mezzo, dal decreto Cutro che ha introdotto le procedure accelerate di espulsione. Da allora il 90 per cento delle decisioni dei giudici hanno dato torto al Viminale. Che ha puntualmente fatta ricorso in Cassazione con poche speranze però visto che si tratta di un giudizio non di merito ma che si limita solo a valutare la conformità degli atti.

Il ruolo della Corte d’appello sarebbe chiave perché potrebbe ribaltare nel merito il giudizio di primo grado. Non è chiaro in questo frattempo dove andrebbero gli immigrati in attesa di giudizio: espulsi? Trattenuti nei centri? Liberi e in attesa del verdetto?
La faccenda è molto tecnica. Ed è vero anche che il passaggio in Appello può essere una garanzia in più per l’immigrato. Motivo per cui il Quirinale potrebbe alla fine cedere e dare il via libera. Sarebbe però l’ennesimo strappo di una stagione iniziata prima dell’estate che ha segnato un raffreddamento vistoso nei rapporti tra palazzo Chigi e Quirinale.
Gli uffici legislativi del Colle, ad esempio, avrebbero fatto pervenire allo stesso Mantovano il disappunto in generale per un provvedimento per cui “mancano del tutto i criteri della necessità e dell’urgenza” preliminari quando si ricorre ad un decreto legge. Qui l’unica urgenza è politica e ha che fare la necessità della premier di proseguire nella sua narrazione a livello nazionale ma anche europeo di colei che difende i confini della patria. Sarebbe stata cassata, ad esempio e sempre su invito del Colle, anche la parte del decreto che puntava ad estromettere i tribunali per l’immigrazione sostituendoli con i giudici di pace.

Insomma, lunedì sera era rimasta solo la lista dei 19 Paesi sicuri. Consapevole che non sarebbe bastato per mettere al riparo da nuove sentenze che negano i trattenimenti, ieri la premier ha dato ordine di fare qualcosa in più. Qualunque cosa ma qualcosa in più. I giudici dell’Appello avevano già fatto pervenire il loro disappunto per questa eventualità: “Non ce la facciamo, siamo oberati con l’arretrato, se ci arriva anche l’immigrazione si ferma tutto”.
Alla fine finirà così. Pur di dire che è andata oltre. Che ha ottenuto qualcosa. Ma non certo sufficiente per sostenere una rassegna stampa. Meglio il solito, rassicurante videomessaggio di quasi tre minuti lanciato sul web ieri mattina: “Se voi ci date la forza, noi andiamo avanti”. Senza le solite fastidiose domande.


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