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Manovre in vista dei referendum per mandare in Corte Costituzionale il consigliere giuridico della premier; Sulla Consulta c’è il sospetto di un patto Meloni-Conte
C’è il sospetto di un patto Meloni-Conte dietro le tensioni sulla seduta parlamentare di questa mattina quando le Camere sono convocate a Montecitorio per eleggere uno dei cinque giudici della Corte Costituzionale, di nomina parlamentare, seggio vacante da novembre scorso quando lasciò la Corte l’allora presidente Silvana Sciarra. Il Presidente della Repubblica chiede da mesi al Parlamento di fare il suo dovere e colmare quel vuoto inaccettabile negli equilibri della Repubblica e della democrazia.
Richiesta ignorata per un anno e probabilmente piegata a fare in modo che nel gioco delle scadenze il Parlamento, e quindi la maggioranza di destra, riesca ad avere in pratica la paternità di quattro giudici parlamentari su cinque. Sarebbe uno sgarbo istituzionale pesantissimo. Un precedente grave. Specie nella fase in cui la Corte è chiamata ad esprimersi sulla costituzionalità delle riforme che il governo Meloni considera il cardine del proprio mandato governativo: autonomia regionale; premierato; separazione delle carriere.
Andiamo con ordine che il “gioco” è sottile e complesso.
La Corte Costituzionale
La Corte Costituzionale, la nostra Suprema corte, è il giudice delle leggi e il luogo ultimo delle decisioni da cui poi discendono le decisioni e quindi le regole della nostra convivenza. I padri costituenti ne definirono la composizione con precisione tale da garantire ogni “potere” dello Stato: cinque giudici di nomina parlamentare; cinque di nomina del Presidente della Repubblica; altri cinque nominati dalle magistrature, tre dalla Cassazione e uno per ciascuno da Corte dei Conti e Consiglio di Stato. Il tutto con i tempi delle entrate e delle uscite regolati da una regola ferrea: la permanenza massima a Palazzo della Consulta è di nove anni. Tempi e composizione hanno sempre garantito alla Repubblica una Corte terza ed equilibrata. Il giudice delle leggi, appunto.
OBBIETTIVO DELLA PREMIER: IL CONTROLLO SULLA CONSULTA
Non è un mistero però che uno degli obiettivi della premier, nel più vasto disegno di quella egemonia culturale inseguita quasi con ossessione, sia anche quello di poter esercitare una sorta di controllo sulla Consulta grazie alle cinque nomine che spettano al Parlamento. Anche perché “controllare” la componente parlamentare significa la possibilità di ipotecare molte decisioni (prese sempre a maggioranza). Specialmente in una stagione di riforme costituzionali come quella che la premier ha intenzione di portare in porto in questa legislatura.
Se questo è il progetto-quadro, adesso è necessario capire quali potrebbero essere le mosse per realizzarlo. Una mossa, quasi uno scacco matto, poteva essere quello di far arrivare a scadenza tutte insieme ben quattro caselle della Corte. Il 21 dicembre infatti scadono insieme, secondo l’orologio svizzero della Consulta, ben tre giudici di nomina parlamentare: il presidente Augusto Barbera e i vice Franco Modugno e Giulio Prosperetti.
Se si aggiunge il seggio di Silvana Sciarra, vacante da un anno, sono quattro i nomi da sostituire, cioè da eleggere con la maggioranza di 3/5 dell’assemblea, 363 voti. Se si considera che il quinto giudice, tuttora in carica, Luca Antonini è espressione del centro destra, Meloni potrebbe incassare una maggioranza di 4 a uno (uno sarebbe lasciato alle opposizioni per carità di patria) nella componente parlamentare. Uno sbilanciamento mai visto. Strategico però in vista dei ben tre/quattro giudizi che la Corte dovrà dare proprio sulle tre riforme costituzionali, tutte, in modo o nell’altro, o prima o dopo, destinate a passare dal verdetto della Consulta.
Solo così si poteva spiegare la totale assenza di volontà politica di coprire il seggio vacante di Sciarra nonostante il ripetuto pressing del Capo dello Stato.
L’UDIENZA PER IL REFERENDUM E L’ELEZIONE TEMPESTIVA DEL GIUDICE MANCANTE
Dieci giorni fa però succede un fatto inatteso. Il presidente Barbera ha fissato in modo un po’ inatteso, ma del tutto legittimo, il 12 novembre l’udienza pubblica che dovrà giudicare i ricorsi delle quattro regioni contro la legge Calderoli sull’autonomia regionale differenziata. Un giudizio che può accogliere, respingere in tutto o in parte e aprire la strada al referendum popolare senza aspettare l’altro referendum che senz’altro nascerà dalla raccolta di oltre seicentomila firme (il cui verdetto è comunque atteso entro metà febbraio).
Resa nota la data dell’udienza, all’improvviso a palazzo Chigi si è messa in moto la macchina per eleggere prima del 12 novembre il giudice mancante (al posto di Sciarra). Per gli altri tre ci si penserà a gennaio. Si spiega così il messaggino sulla chat dei parlamentari di Fdi che è stato inviato giovedì e pubblicato il giorno dopo sui quotidiani: “Martedì 8 ottobre è necessaria la presenza in aula alle ore 12.30 per la votazione di un giudice costituzionale. Annullate ogni missione o altro impegno”. All’improvviso eleggere quel giudice è diventato un affare di Stato. Tanto da richiedere la presenza di tutti in aula. Tanto da far andare su tutte le furie non solo la premier ma anche il ministro della Difesa Guido Crosetto che ha minacciato la denuncia in procura per violazione di corrispondenza privata.
CONSULTA, L’IPOTESI DI UN PATTO MELONI – CONTE
L’improvvisa accelerazione, oltre che dalle ragioni sin qui esposte, nasce anche dal fatto che dopo vari tentativi (almeno sette votazioni a vuoto senza neppure il tentativo di un nome) ci sarebbe un accordo per uscire dallo stallo e avere i 3/5 dei voti sul nome di Francesco Saverio Marini, figlio di Annibale Marini ex presidente della Consulta e poi del Csm, di provata fede aennina, da due anni consigliere giuridico di Giorgia Meloni a palazzo Chigi e, in ultimo, colui che materialmente avrebbe scritto la riforma del premierato.
L’accordo su Marini fa gridare al golpe Pd e Sinistra e Verdi per due motivi. Il primo riguarda il passaggio diretto da palazzo Chigi a giudice della Consulta considerato da tutti i costituzionalisti “inopportuno” visto che porta in sé il germe del conflitto di interessi. E la Corte, dato su cui forse pochi riflettono, è l’unico organismo giuridico e di garanzia a non contemplare l’astensione o la ricusazione. Non è possibile, insomma, in nessuna fase invocare il conflitto di interessi. Il secondo motivo è che il quorum per il giudice della Consulta potrebbe essere raggiunto grazie ad un patto sotto banco tra Meloni e i 5 Stelle di Giuseppe Conte. In cambio, sussurrano le male lingue, di una direzione in Rai.
Più in generale il Pd vede con inquietudine uno scenario in cui la maggioranza possa avere i numeri per eleggere quattro dei cinque giudici costituzionali di nomina parlamentare. Il Pd stamani non sarà in aula. Il voto è segreto e non ci devono essere alibi. Conte deciderà stamani dopo una riunione ieri in serata.
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