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Viaggio a Tashkent, la capitale dell’Uzbekistan tra il passato sovietico e la cultura occidentale in un Paese che vive l’Islam in modo moderno
L’Hotel Uzbekistan, costruito alla fine degli anni ’60 durante il periodo della Repubblica Socialista Sovietica dell’Uzbekistan, è stato progettato dai più importanti architetti sovietici con il coordinamento di Ilya Merport. Alla data della sua inaugurazione, nel 1974, era uno degli hotel più grandi e lussuosi dell’intera Asia centrale, con il suo sorprendente stile architettonico, caratterizzato da linee eleganti e semplici ornamenti modernisti che riflettevano l’estetica prevalente dell’Urss e del blocco orientale dell’epoca.
Fu certamente un simbolo della fase di progresso che caratterizzava il blocco sovietico. Il progetto iniziale dell’Hotel Uzbekistan prevedeva la costruzione di una tipica struttura alberghiera Intourist. Tuttavia, man mano che Tashkent diventava una città vetrina sovietica, i piani per l’alloggio più importante della città si ampliarono. All’apertura, insieme all’imponente edificio principale, l’Hotel Uzbekistan era più un complesso che un singolo hotel. Vantava edifici e strutture periferiche che ospitavano bar, ristoranti, sale riunioni e altre strutture per gli ospiti che soggiornavano nella capitale uzbeka.
Dotato di un ristorante da 450 posti, una sala banchetti, un caffè, una casa da tè e persino un bar notturno, l’Hotel Uzbekistan era insomma l’hotel principale per ogni visitatore della repubblica. Poteva offrire circa 400 camere e suite, ognuna meticolosamente arredata con comfort moderni e decorazioni tradizionali uzbeke, risultando così un rifugio di lusso per i viaggiatori provenienti da tutto il mondo. Con la fine del blocco sovietico e l’autonomia degli anni ’90, l’hotel ha subito un ridimensionamento, pur restando una struttura imponente. Conta infatti 315 camere ed è rimasta un’unica suite presidenziale. Quello che è certo è che l’Hotel Uzbekistan rimane una parte importante di Tashkent. Un luogo che da solo vale un giro nella capitale uzbeka.
Me lo trovo dinanzi così, maestoso in tutto il suo splendore, enorme ma dal tratto sinuoso che gli deriva dalla leggera ondulazione della facciata principale. Lo osservo di sfuggita lateralmente, dal finestrino del taxi che velocemente si infila nell’apposito percorso per lasciarmi esattamente dinanzi all’immensa porta d’ingresso. Lascio il bagaglio li: non resisto alla tentazione di osservarlo per intero, e devo indietreggiare di molti, molti metri per riuscire a farlo entrare tutto nel mio spazio visivo. È davvero imponente.
Ho la fortuna di avere una camera al quindicesimo piano, su sedici totali ai quali si aggiunge un ulteriore ultimo piano che ospita un meraviglioso ristorante panoramico. Dal balcone della mia camera la vista sulla città è veramente spettacolare. La città è sterminata, e la sua geometria architettonica mi restituisce l’idea di una città molto moderna. Grattacieli in vetro ed enormi costruzioni che potrebbero essere in una qualsiasi, moderna grande città europea, americana o asiatica.
Chissà come doveva essere diversa questa capitale prima del 25 aprile 1966, quando la città fu colpita da un violento terremoto di magnitudo 7.5 nella scala Richter, che lasciò oltre 300 mila persone senza casa e la rase al suolo. All’epoca, Tashkent era già un punto di riferimento molto importante non solo per l’Uzbekistan ma per l’intera Unione Sovietica. Fu in seguito a quel tragico evento che si prese la decisione di ricostruire una città moderna, puntando però su due simboli del modernismo sovietico a testimoniare il senso di appartenenza e l’orgoglio russo: l’hotel Uzbekistan, appunto, e la bellissima metropolitana, che qualcuno ha definito la più bella del mondo.
Non so se sia davvero la più bella del mondo, perché non le ho viste tutte. Ma la metro di Tashkent è davvero splendida, ricorda molto da vicino quella di Mosca, con alcune stazioni che sembrano musei sotterranei pieni di fregi, statue, ceramiche e lampade veramente bellissime.
Prendo la metropolitana disegnando un tragitto che prevede anche qualche cambio di linea per dare un’occhiata a caso alle stazioni: sono davvero tutte fantastiche, si fa fatica a trovarne una meno bella delle altre.
Ciascuna ha una sua particolarità, un suo fascino, qualcosa che colpisce la vista e la mente. Nelle attese – peraltro molto brevi – fra un treno e un altro, osservo la gente: i giovani sono un mondo a parte, globalizzati nell’abbigliamento e nei comportamenti. Molti vestiti stravaganti, risate sommesse in qualche gruppo di ragazze dopo aver condiviso la visione dello schermo di un telefonino, la sensazione di grande rispetto per gli altri, soprattutto nelle fasi di salita e discesa dalle carrozze. Alcune donne più anziane sono invece vestite seguendo i dettami della religione islamica, ma quasi si perdono nella marea del resto. Non fosse per le bellissime pareti delle stazioni, potrei essere in una qualsiasi città europea.
L’ultima fermata dopo questo giro esplorativo all’interno, quella da cui risalgo in superficie, è quella di Chorsu, che mi immette direttamente nel gran bazar. I bazar sono una visita imperdibile nelle città asiatiche; una delle mie passioni di flâneur, perché si finisce con il perdersi nelle mille stradine che lo formano, mentre si attraversano zone dedicate a commerci di merci diverse. All’ingresso stazionano due o tre persone in cerca di turisti stranieri per cambiare i soldi in nero.
Ovviamente si avvicinano anche a me, ma declino gentilmente l’offerta; prelevare dal bancomat qui è veramente la via più comoda e meno dispendiosa di dotarsi di som uzbeki, con una piccolissima percentuale di tasse, senza contare che molto spesso questi cambi in nero per strada si rivelano truffaldini. Una delle cose più frequenti che accadono è il ricevere banconote vecchie, non più in corso, e qui l’operazione è resa ancora più semplice dal fatto che cambiare anche solo venti euro significa poter ricevere una quantità di banconote inverosimile di piccolo taglio. Mi allontano, anche se per un attimo mi balena un’idea strana. Ho sempre con me, nel portamonete destinato all’estero, una vecchia banconota da venti sterline inglesi, fuoricorso.
Sono ciò che resta dei miei periodi di studio alla Essex University a Colchester, nell’Essex. Per un attimo mi viene voglia di dire al tipo: Ok mi cambi venti sterline inglesi? Ma abbandono subito questo pensiero che mi fa sorridere, mi piace conservare quella banconota ma soprattutto non posso prevedere la sua reazione se dovesse rendersi conto che è una fuori corso dal 1982.
Il bazar è spettacolare, un vero paradiso per quasi tutti i sensi. I colori sgargianti delle spezie, il profumo del pane uzbeko caldo, appena sfornato che si mescola con quello, inevitabile, di una moltitudine di persone, il chiacchiericcio di sottofondo che prende il posto delle urla nei mercati che di solito frequentiamo nelle nostre città, la morbidezza al tatto delle stoffe e dei tappeti che sono ovunque. Osservo la quantità di frutta che non conosco di una bancarella per poi fermarmi ad osservare un intero vialetto dove c’è una quantità di frutta secca impressionante.
Ne scelgo due o tre tipi diversi, dopo che un simpatico ragazzo mi descrive nomi, proprietà e caratteristiche di molti che non ho mai visto. Quando pago, mi invita a sedermi con lui: ha preparato una caraffa di ottimo thè verde, e me ne offre una tazza. Chiacchieriamo così per una mezz’ora, parla un inglese più che accettabile, la nostra è una conversazione un po’ a singhiozzi perché lui ogni tanto si alza, pesa una certa quantità di frutta secca, incassa e saluta i clienti. Poi torna a sedersi e a sorseggiare il suo thè, versandosene un’altra ciotola.
Gli chiedo della vita a Tashkent, e mi risponde che non lascerebbe mai l’Uzbekistan. Molti sono andati via, mi dice, ma perché costretti; pochissimi l’hanno fatto per scelta. Io, continua sorseggiando il thè, non andrei a vivere in un altro posto per nessuna ragione al mondo. Mi risponde che no, non è mai stato in Italia. Però conosce i marchi più famosi, da quelli della moda alle automobili. Si alza per tornare a servire i suoi clienti e io ne approfitto per continuare il mio giro, ringraziandolo. Mi perdo per qualche ora, nel bazar. Qui il tempo è lento. Giro totalmente a caso, seguendo l’istinto e facendomi guidare dagli odori e dai colori.
Scatto molte foto, mi colpiscono i visi di molte persone in questa quotidianità dai tempi più lenti di quelli a cui siamo abituati. Arrivo così ad una uscita dal bazar presidiata da alcuni giovani forze dell’ordine. Chiedo informazioni sulla fermata della metropolitana e uno di loro mi dice che è esattamente dall’altra parte del bazar.
Nessun problema, gli rispondo con un sorriso. Ma è allora che un altro poliziotto del gruppo mi dice che anche lui sta andando a prendere la metropolitana perché ha finito il turno e torna a casa. Mi farà da guida nei meandri popolatissimi a Chorsu. Lo seguo, allora, e quando arriviamo alla stazione della metro passa due volte il suo abbonamento, regalandomi così anche l’ingresso. Costa pochissimo un biglietto, una ventina di centesimi scarsi, ma lo ringrazio per la compagnia e per il gesto. Si assicura che mi infili nella scala mobile giusta, e poi ci salutiamo.
Il giorno successivo passeggio nella parte nuova della città, sempre totalmente a caso. Le strade anche qui restituiscono quel senso di grandezza di gran parte delle capitali nei paesi dell’ex Urss. Vialoni a più corsie, spesso al centro di due file di alberi. Lunghissimi percorsi pedonali, panchine e fontane ovunque, un senso di benessere pur in un traffico denso ma non caotico come quello delle città italiane.
È domenica, e incontro moltissime famiglie che passeggiano, i padri impegnati con i figli più grandi, le madri con i più piccoli. E spesso un altro paio d’età intermedia che se la vedono per conto proprio. Da quanto tempo non vedevo una famiglia con quattro figli a passeggio una domenica mattina? Forse dal 1970, quando vivevo ancora a Bari e c’erano famiglie numerose e non, come accade oggi, con uno o due figli al massimo. Prendo un autobus, mi piace guardare la città seguendo un percorso a caso. Una bimba con sua madre pare essere molto incuriosita dalla mia presenza. È una bellissima bimba, e chiedo il permesso a sua madre di fotografarla. Felice, acconsente.
Oggi voglio dare un’occhiata anche alla parte storico religiosa della città. È da tutt’altra parte e allora fermo al volo un taxi, contratto il prezzo (“you always have to bargain”, devi sempre contrattare mi aveva raccomandato il ragazzo della frutta secca, “perché è un fatto culturale, se non lo fai qualcuno potrebbe offendersi”) e mi ritrovo nella piazza Hazrat Imam, intitolata al primo imam di Tashkent. È un luogo che ricorda, sia pur con minor fulgore, le bellissime Khiva, Samarkanda e Bukhara, le tre città storiche patrimonio Unesco.
Qui a Tashkent, invece, nella piazza si affacciano alcuni edifici religiosi, comunque, molto interessanti come il mausoleo Hazrati Imam, la madrasa Barak Khan, due moschee minori e la Biblioteca Moyie Mubarek, dove si trova quella che viene ritenuta una delle copie più antiche del Corano esistenti al mondo. Mi fermo a guardare e ad osservare come osserva le cose la gente locale. Osservare è uno dei miei sport preferiti. Ma sì è fatto sera, nel frattempo. Seguo un gruppo di persone che mi ispira fiducia e non sbaglio.
Trovo così quello che poi scopro essere il ristorante popolare più frequentato dagli abitanti di Tashkent. Un vero e proprio tempio del plov, il piatto tipico uzbeko. Un posto enorme dove cucinano carni diverse con una incredibile quantità di verdure in enormi calderoni chiamati kazan riscaldati da fuoco a legna cui vengono poi aggiunti decine di chili di riso per volta, il tutto mescolate con cucchiai così grandi che sembrano badili. E finisco la serata con loro in uno degli enormi tavoli che favoriscono incontri, racconti, narrazioni e anche possibilità di conoscere meglio altre persone in giro per il mondo.
Il giorno successivo riparto, con un cambio di volo improvviso a poche ore da quella originariamente prevista. Accade, accade spesso quando si viaggia tanto. Salta il primo dei voli che mi riporta in Italia. E allora invece che fare scalo ad Abu Dhabi, per me poco interessante e già vista, volo per l’Italia via Varsavia. Nove ore di scalo in una città che non conosco. Benissimo. Ovviamente, non attenderò il volo successivo in aeroporto.
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