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La quasi rissa tra Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini

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Una questione d’onore, altro che “una questione di chimica, chi-chi-chimica” per riprendere una ventata di Sanremo che s’è già stemperata nell’attesa di un tormentone per l’estate.

C’era sempre una questione d’onore, e dunque d’amore, che fosse l’amor proprio o l’amor patrio, alla base di un duello. Ettore e Achille, per dirne uno, lode allo sconfitto da nominare per primo. Del resto Achille, non avesse avuto quel tallone che lo rese non invincibile, sarebbe stato soltanto un arrogante che faceva carriera perché aveva un padre e una madre potenti, anche più del re che era Priamo, il “babbo” di Ettore.

Ora, invece, il duello, che tanta letteratura, tanta arte, tanto sport ci hanno tramandato come il più bello, emozionante, adrenalinico degli attimi fuggenti, che sempre fuggono, è diventato il fil rouge del talkshow. Non più cavalieri antiqui, ma opinionisti moderni, non più Ettore Fieramosca e Charles de Torgues, ma Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini (l’ordine, e dunque vincitori e vinti, a gusto di chi legge, anche se forse si tratta di solo vinti), non più la “Disfida di Barletta”, ma la “Disfida di Burletta” che è un abusato calambour, ma che rende sempre l’idea.

Dietro non c’è molto di più, se non la voglia d’auditel, il picco che impicca al televisore anche i tenaci aficionados del trash. Per il duello non più all’ultimo sangue ma all’ultima parolaccia non ci si dà appuntamento dietro il muro del cimitero (comodo: lo sconfitto non doveva fare un lungo viaggio per entrare) o nella radura d’un boschetto, all’alba, padrini e codice da rispettare.

Ora l’appuntamento è in uno studio televisivo, ogni indirizzo è buono, servizio pubblico o privato, ispirazione nazional-popolare o radical-chic. Il duello si fa rissa: buttiamola in caciara, come si dice a Roma. Si sono viste signore prendersi a borsettate, come fossero “vaiasse”, tirarsi per i capelli come Nannarella nostra quando faceva la popolana verace. E quegli intellettuali che hanno e danno un riverito parere su tutto: che rimpianto per il duello di una volta, cappa e spada, il signore di Bergerac, che “giunto al fin della licenza io tocco” o D’Artagnan e gli altri che per salvare l’onore (e i puntali) della Regina affrontavano armi bianche a volontà. Ma ne uccide più la lingua della spada, e dunque assai più pericolosi sembrano i “rissaroli del catodo”. Accendi la tv, guardi e il fondale, e capisci dove andranno a parare il colpo. Le parate del signore di Bergerac e di D’Artagnan erano un’altra cosa.

Anche il mondo western ha vissuto la sua gloria sul duello, il “mezzogiorno di fuoco”, il pugno di dollari che “quando un uomo armato con la pistola incontra un uomo armato con il fucile, l’uomo con la pistola è morto”. Quando un uomo è armato di una parolaccia e un altro pure (degli insulti in questione si può stilare un catalogo anche più fornito di quello del “Don Giovanni” mozartiano, “in Italia seicentoquaranta, in Alemagna duecento e trentuna, cento in Francia, in Turchia novantuna, ma in Ispagna son già mille e tre”) nessuno dei due muore, ma tutti e due alzano lo share. E poi, in questa infodemia, il virus contagia da una pagina all’altra, da un talkshow all’altro, e la mascherina sta semplicemente nello spegnere il televisore.

Son finiti i tempi dei grandi poeti russi (perdonate quest’ultima parola) che avevano fatto del verso e dell’arma una ragione di vita: Puskhin che muore per difendere l’onore della moglie.

Continuano, invece, i grandi duelli dello sport: quelli che si rifanno alla scherma, ma anche quelli all’arma nuova, una palla da tennis, un colpo d’acceleratore, una sgommata, un pugno (senza la carezza dentro). Il duello tra il tiratore di rigore e il portiere con i piedi dietro la linea., il coraggio di Karim Benzema che fa il cucchiaio in Champions. Come pugile, comunque, meglio Tyson Fury di Giampiero Mughini.


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