Illustrazione di Roberto Melis
2 minuti per la letturaLe feste che ci prepariamo a vivere non avranno il sapore consolante degli abbracci, dei sorrisi, delle vicinanze che scaldano il cuore. Per molti si prospettano giornate insolite all’insegna della nostalgia e del silenzio illuminato da luci intermittenti, con i giochi delle carte e le tombole sostituite da un buon libro o da una serie tv.
Ho iniziato con True Detective, poi sono venute Breaking Bad, La casa di carta, Peaky Blinders. Così, senza rendermene conto, mi sono ritrovato ad essere un serialista, uno che accende Netflix anche solo per pochi minuti, mentre sorseggia un caffè o aspetta l’arrivo dei figli, risucchiato senza appello nel vortice moderno della serialità televisiva.
Il racconto seriale non è una nostra invenzione. A fine Ottocento c’era stato il feuilleton, che In Italia chiamarono romanzo d’appendice: storie pubblicate a puntate sulle riviste e che non erano tutta roba da buttare: furono stampate Madame Bovary e I Miserabili, Delitto e Castigo e Anna Karenina. Negli anni Ottanta del Novecento fu poi il tempo delle telenovelas e delle soap opera.
Opere di opposto valore estetico ma accomunate, narratologicamente, da due peculiarità: il frazionamento della storia e la sua durata nel tempo. Ed è proprio in quest’ultima che si cela il vero motivo per cui ci affezioniamo alle vicende del Professore o a quelle di Walter White.
Gli effetti della narrazione tradizionale – quella riconducibile al tempo standard di un romanzo o un film – vengono amplificati dalla durata, che non coincide più con il tempo dell’eccezionalità ma impone il tempo della normalità: ricostruire la biografia dei personaggi non solo nel momento della loro epifania ma anche nella monotonia e ripetitività quotidiana, ce li rende più simili e somiglianti, favorendo così quell’identificazione tra personaggio e lettore/spettatore che è uno degli obiettivi principali di ogni narrazione.
La prima domanda che il serialista si pone, quando deve scegliere la nuova serie tv, è di quante stagioni è composta e spera che la risposta sia un numero altissimo, perché il serialista irriducibile vuole che ci siano più stagioni possibili, anzi, vorrebbe che non finissero mai, quasi a realizzare l’utopia di un racconto se non infinito, durevole almeno quanto una vita, la propria vita, una narrazione che finalmente si sovrappone e coincide con i tempi della nostra esistenza.
Non vorremmo finissero mai le stagioni di Lost – che poi trovo bellissimo questo modo di chiamare la singola serie, stagione, a ricalcare il tempo della natura che scandisce gli avvicendamenti umani –, e nel rimandare più lontano possibile la loro conclusione, ammettiamo la vera ragione che determina il bisogno della narrazione infinita, e forse di ogni narrazione autentica: differire ed esorcizzare la fine per antonomasia, la morte, l’unico tabù rimasto all’uomo occidentale.
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