Il Don Carlo che ha aperto la stagione lirica della Scala di Milano
4 minuti per la letturaE’ GIUSTO compiacersi, in tempi di falsificazioni e strumentalizzazioni ideologiche e interpretative, per il rigore e la qualità della regia di Lluis Pasqual del Don Carlos di Verdi, carica di consapevolezza e rispetto della storia, grazie anche alle scene suggestive e preziose di Daniel Bianco. Le riserve prevedibili e stantie di Alberto Mattioli, che accusa capricciosamente Pasqual di staticità e prevedibilità solo per non aver cercato provocatorie attualizzazioni, sono la conferma dell’impegno e del rispetto sempre più eccezionali in un mondo dove l’opera è il pretesto per esercizi e proclami, privilegiando il politicamente corretto, e le più prevedibili banalità. Ci siamo risparmiati di poco la morale sul patriarcato.
La solennità della rappresentazione ripaga di decine di orrori e di inutili prepotenze. Gli aggiornamenti sono sempre in agguato. E questa volta sono stati respinti. La stesura del Don Carlos fu piuttosto lunga e impegnò Verdi per oltre un anno. Ne è derivato un mastodontico Grand Opéra, corredato di balletti e grandiose scene corali definibili quasi “di massa” in armonia con le consuetudini dell’opulento genere operistico francese. Pasqual è riuscito, con compostezza, non staticità, a restituircele. Particolarmente pregevoli sono anche i costumi di Franca Squarciapino.
Regia, scene e costumi rendono questa edizione del «Don Carlos» memorabile nella auspicata restituzione delle regie liriche alla volontà del compositore e al racconto storico del libretto d’ispirazione schilleriana. Una scelta culturalmente straordinaria, nell’accordo con il direttore musicale Riccardo Chailly, dopo le abiezioni del festival pucciniano nelle celebrazioni del centenario del musicista. Questa interpretazione di Verdi riporta ordine in un mondo dominato dai capricci e dagli arbitrii dei registi. Memorabile il ballo della Peregrina, ambientato in una grotta di madreperla, con le perle dell’Oceano nel gioiello della corona di Spagna, personificata dalla regina Elisabetta, su un carro sfolgorante alla fine del ballo.
Dopo una prova così seria e così coraggiosa porterò con me il sentimento di gratitudine per la scelta di Meyer e di Chailly, auspicando che il ministero della Cultura possa essere garante del rispetto delle opere dei compositori, così come vigila sui restauri dei monumenti. Inoltre, dopo l’increscioso incidente della censura al direttore d’orchestra Valerij Abisalovi Gergiev, mi compiaccio per la scelta del meraviglioso soprano Anna Netrebko, nonostante la sua amicizia con Gergiev che l’ha frequentemente diretta e il conferimento del premio come “artista del popolo della Russia” da parte di Putin al teatro Teatro Mariinskij. Ricordo che la grande cantante esordì alla scala nel 1998 con un concerto di musiche russe dirette da Gergiev. La sua presenza può essere considerata come il “pentimento” di Sala, ricordando che nel 2020 la Netrebko interpretò lo stesso personaggio di Elisabetta nel “Don Carlos” al Boshoi di Mosca.
La prima della Scala, inutilmente disturbata dalla polemiche politiche e mondane in platea, sul palcoscenico è stata una testimonianza di grande civiltà e di vera proposta culturale, in tempi dì cialtronaggine e di confusione come si è visto con la “Boheme” a Torre del Lago. Il problema della regia della Bohème non è un problema estetico, sul quale mi sono pronunciato come critico d’arte e inventore di alcune regie che si contrapponevano, alla radice, alle “attualizzazioni”, ma un problema politico: l’uso e l’abuso da parte del regista Christophe Gayral di un incarico avuto dal Festival Pucciniano per dichiarare con la regia le sue intenzioni politiche e socio psicologiche. Gayral ha affermato: “Un allestimento tradizionale non parla più al pubblico (bisognerebbe chiederlo al pubblico) che, con la pandemia, si è allontanato dalla lirica, e in Italia è necessario aggiungere, macerie culturali lasciate da vent’anni di Berlusconi. Dobbiamo recuperare gli spettatori facendo dell’opera uno specchio in cui possano riflettersi: cosa siamo diventati oggi con una guerra alle porte, il ritorno dei fascismi, dei nazionalismi, dei populismi, la crisi climatica?”.
Non è questo che si chiede a un regista. E io, che ho fatto il ’68 e ne ho ereditato la carica libertaria, gli ho chiesto: cosa c’entra Berlusconi con Puccini e cosa intende con “il ritorno dei fascismi”? La sua è una regia o un comizio? E la città di Lucca, governata dalla stessa coalizione che è al Governo, non ha un Sindaco ma un Podestà? E la regia della Bohème dev’essere lo strumento per criticare il Governo e le istituzioni che finanziano il Festival e le celebrazioni Pucciniane? Per il ’68 io attendo altra musica, non quella di Puccini che dovrebbe essere lasciato in pace. Dopo queste perversioni la regia di Pasqual per il Don Carlos è un ritorno alla intelligenza e alla ragione. A Milano l’antifascismo è rimasto in platea.
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