Giorgio Strehler, morto a Lugano il 25 dicembre 1997
7 minuti per la letturaGIORGIO Strehler: vita e morte di un visionario geniale capace anche di intervistarsi meglio di chiunque altro. “Sovente lo spettacolo è già fatto in pochi giorni e sono dei giorni di felicità creativa. Non può sempre essere così. Ecco la dannazione, la grandezza, la disciplina, il martirio del teatro: il gioco, l’invenzione creatrice debbono sempre essere fissate, riprodotte… e colui che le ha inventate spesso non si ricorda più come vi è giunto o non riesce più a riprodurle è qui che interviene più che mai il regista che deve saper registrare e rendere cosciente il processo che ha scatenato questo momento. È il periodo più duro del lavoro che io faccio al Piccolo e altrove: ridare corpo, suono e splendore all’invenzione perduta di tutti gli attori. Poco a poco, con umiltà questi piccoli segmenti di spettacolo ritrovano un colore iridescente ma per giungerci bisogna spesso passare attraverso un lavoro opaco…”
Questa lunga intervista “a sé stesso” pubblicata da De Piante di cui è possibile ascoltarne anche un estratto audio sul sito della casa editrice, fu stampata su un programma di sala del Piccolo Teatro nel 1984 e non fu mai pubblicata. Dimenticata e poi ritrovata negli archivi del teatro milanese svela l’essenza di Giorgio Strehler. Alla soglia dei 65 anni, Strehler qui raccontava “la sua straordinaria carriera, come regista e come intellettuale, ma anche i dubbi e le mancanze di un lavoro sui testi e sugli autori più grandi che fu maniacale, ma non sufficiente a colmare la vastità della possibilità che la storia millenaria del teatro apre”.
«Il teatro è una metafora della vita e della morte, ma è anche storia e cronaca che, a loro volta, sono politica», osservava il regista. Rovesciando la clessidra delle parole, nel suo caso si potrebbe dire che la sua vita è stata una metafora del teatro. Sono trascorsi venticinque anni dalla sua scomparsa avvenuta il 25 dicembre 1997. Un vuoto che però continua ad essere un pieno per chi il teatro lo ha fatto e lo fa, lo ama e lo vive e per chi a teatro ci va. Perché Strehler è tra i nomi che ne hanno fatto la Storia, ne hanno scritto regole e ne hanno scardinate altre. Un innovatore, geniale al punto che Le Monde lo definirà “il più grande regista del ‘900”. Affascinante e colto. Iconico. Lo sguardo inquieto, la voce inconfondibile, i gesti, il maglione a collo alto… Anche la sua fisicità era teatrale. Come la sua morte a sorpresa. Alle quattro del mattino di quel 25 dicembre nella sua abitazione di Lugano dove aveva trascorso la vigilia della festa “cenando con alcuni amici, dopo aver fatto l’albero di Natale nel giardinetto di casa”, riportarono le cronache del tempo. L’albero, le luci, la festa e in testa quel “Così fan tutte” di Mozart a cui stava lavorando: l’ultimo allestimento resta per lui un sogno spezzato. Il debutto negato. L’applauso di scena mancato. Centinaia e centinaia le persone che affollarono la camera ardente aperta per 24 ore nella platea del Piccolo a Milano. Come fu per Paolo Grassi con cui Strehler, insieme a Nina Vinchi, aveva creato quel teatro: il primo teatro pubblico e stabile italiano.
Lacrime e dolore sulle note di Mozart nel giorno dell’ultimo saluto. «Si è spenta la grande luce», disse Valentina Cortese che ne seguirà il feretro stringendo tra le mani tre rose bianche. Milano poi Trieste dove le sue ceneri riposano nel cimitero di sant’Anna nella semplicissima tomba di famiglia e dove Strehler era nato il 14 agosto 1921 a Barcola il quartiere affacciato sul mare in una famiglia crocevia di lingue e culture diverse: slavo il nonno musicista, francese la nonna di cui per un certo tempo userà il nome come pseudonimo, di origini viennesi il padre.
A sette anni, Giorgio orfano del padre si trasferisce con la madre Alberta Lovric, violinista di fama, a Milano. È qui che inizia la partita a scacchi con il teatro che lo accompagnerà per tutta la vita. La scintilla si accende durante la rappresentazione di “Una delle ultime sere di Carnovale” di Carlo Goldoni a cui assiste da giovane spettatore. Giorgio rimane folgorato. Si iscrive all’Accademia dei Filodrammatici, dove si diploma nel 1940. Il debutto alla regia è datato 1943: a Novara con tre atti unici di Pirandello. La guerra spariglia le carte ma non spegne la passione per il palcoscenico, anzi. “Ostile al regime fascista, nel gennaio 1944 lascia l’Italia e si rifugia in Svizzera, dove continua a fare teatro: con una compagnia di soli uomini, nel Campo di Mürren, poi a Ginevra, dove fonda la Compagnie des Masques e firma gli spettacoli con lo pseudonimo Georges Firmy, dal cognome della nonna materna”, si ricorda sul sito del Piccolo teatro. La guerra finisce e Strehler torna a Milano. È il 14 maggio 1947 quando il sipario si alza su “L’albergo dei poveri” di Maksim Gorkij, titolo che Grassi, Strehler e Vinchi scelgono per inaugurare il Piccolo: la sala di via Rovello restituita all’arte dopo la guerra. Strehler stesso è in scena nel ruolo del ciabattino Alioša. Appena due mesi prima, aveva debuttato al Teatro alla Scala con “La traviata” di Giuseppe Verdi.
Il successo dei suoi spettacoli supera i confini. E c’è come un alone di magia e incanto tra le parole, gli scritti, le interviste, i film documentari, i racconti di e su Strehler. Come quando Gabriele Lavia in un’intervista racconta della capacità del regista di dilatare lo spazio attraverso le sue messe in scena così che anche il Piccolo – un palcoscenico di soli sei metri profondità per cinque e mezzo di lunghezza e cinquecento posti a sedere – diventava immenso…
Magie che riescono ai geni che scalfiscono e graffiano anche la cronaca. C’è ad esempio nella vita di Strehler anche un celeberrimo “mi dimetto da italiano”. Era il 1993, il regista viene processato dal Tribunale di Milano per truffa e malversazione relativa all’utilizzo di contributi del Fondo sociale europeo. Nel 1995 verrà completamente scagionato ed assolto: “il fatto non sussiste” ma il dolore per quell’accusa lo porterà a pronunciare quelle parole che hanno il rumore di un tuono prima di lasciare l’Italia per Lugano, città che torna spesso nella biografia del regista votato alla religione del teatro.
Il Teatro – inclusa la “scoperta” per il pubblico italiano di un autore come Bertold Brecht – ma anche l’opera lirica, la politica e le donne che puntellano la vita privata e quella sul palcoscenico di Giorgio: la prima moglie, la ballerina e coreografa Rosita Lupi, Ornella Vanoni a cui ritagliò il ruolo dell’interprete delle canzoni della mala e di “Ma mi…” musicata da Fiorenzo Carpi, l’ultima moglie l’attrice tedesca Andrea Jonasson. E poi le primedonne che hanno lavorato con lui da Giulia Lazzarini a Ottavia Piccolo, da Valentina Cortese a Monica Guerritore, da Pamela Villoresi a Milva. Ma, qual è il debito che abbiamo con Strehler? La risposta migliore probabilmente l’ha data qualche tempo fa Andrea Jonasson a Maurizio Porro tra i più noti critici cinematografici e teatrali italiani in un’intervista per «la Lettura» del Corriere della sera: «Faceva un teatro comprensibile a tutti: una sera il fisico Carlo Rubbia, il Premio Nobel, ci disse che vedere le prove di Strehler era meglio che guardare le stelle».
Meglio che guardare le stelle? Forse perché il lavoro del regista si nutriva di quel “teatro umano” da lui teorizzato? «Non ci può essere teatro senza il valore dell’umano. Senza quella luce non c’è niente», asseriva Strehler. E sembra di vederlo l’uomo, l’essere umano al centro del palco sotto la sua regia magari con indosso una maschera da commedia dell’arte come quella dell’ Arlecchino servo di due padroni di Goldoni. Intramontabile l’allestimento che ne fece Strehler . «Ha il segno della vita che passa e si rinnova. È sangue che pulsa e scorre nelle vene di un teatro reale e immaginario, come in un corpo umano», diceva di quello spettacolo che gli è sopravvissuto così come il suo teatro umano. Una magia che riesce a pochi.
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